Neppure il tempo di riporre gli addobbi natalizi e di dare seguito alla promessa di mettersi a dieta per smaltire quei chiletti di troppo che abbiamo preso durante le feste che gli scaffali dei supermercati si sono riempiti dei classici dolci carnevaleschi: frappe e castagnole su tutti, relegando alle «offerte speciali», ai «tre per due» (ma anche quattro o cinque per uno) gli ultimi scampoli di dolci natalizi: panettoni, torroni, pandori, datteri e fichi secchi che visti così, messi all’angolo, sembrano ormai di un’epoca lontana.
La pasticceria, soprattutto quella industriale, non conosce soluzioni di continuità e assieme al Carnevale ci sarà San Valentino e poi la festa del papà, Pasqua e via continuando sino al prossimo Natale mentre il gelato, la pasticceria estiva per eccellenza, ci accompagna ormai per tutto l’anno, anche nella stagione più fredda.
Tutti noi, bene o male, siamo propensi a ritenere che questo permanente trionfo dolciario sia la conseguenza del consumismo contemporaneo, ma forse le sue radici sono più profonde e vale la pena di andarle a cercare.
L’origine della pasticceria moderna
Se chiudete gli occhi e pensate ad un dolce molto probabilmente la prima immagine che vi verrà in mente sarà quella di una sontuosa torta fatta di strati di creme diverse.
Se appartenete alla generazione dei boomer vi verrà forse in mente un colorato vassoio di bignè (quelli che a Roma si chiamano pastarelle) complemento immancabile dei pranzi domenicali di famiglia degli anni ’60 e ’70.
Assai più raramente penserete ad un confetto o ad un dolce di frutta secca e spezie.
Queste immagini sono il frutto di una vera e propria sovrapposizione culturale e di quella «rivoluzione dolce» che in Francia seguì l’assai più cruenta Rivoluzione francese.
Andiamo con ordine.
La ricerca del sapore dolce è antica quanto la storia dell’Umanità.
Dolce è il latte materno e dolci sono i frutti che le nostre progenitrici, le raccoglitrici che precedettero le prime contadine, ricercavano per nutrire se stesse ed il loro clan.
Dolce è sinonimo di zucchero e quindi di energia immediatamente disponibile.
«Latte e miele» sono un binomio biblico costante e la «terra dove scorrono latte e miele» è la Terra promessa al popolo dell’Esodo.
Nello splendido giardino in cui soggiorneranno i beati dell’Islam sino alla fine dei tempi scorrono, ancora, fiumi di latte e fiumi di miele, ma anche di bevande speziate.
Nella cucina più antica non vi era una distinzione così netta tra dolce e salato come la conosciamo oggi ed il motivo è molto semplice: gli alimenti erano gustati per lo più al naturale o arricchiti di altri elementi naturali: miele, vino, erbe aromatiche e radici, spezie (che sono altre erbe e radici essiccate che giungono spesso da luoghi lontanissimi) frutta al naturale o trattata per la conservazione.
Più raro lo zucchero che, salva una breve parentesi siciliana, è stata una costosa rarità prodotta o più spesso importata dagli Arabi e commercializzata in Italia dalla Serenissima.
Nei ricettari più antichi allora, che pure non sono privi di una enorme ricchezza dolciaria, pietanze e pasticci dolci e salati si alternano le une agli altri spesso con commistioni che adesso non ci sembrerebbero tanto invitanti.
In una «lista di pranzi curiali» di Bartolomeo Scappi troviamo ad esempio: «lonza di vitella, arrostita allo spiedo, servita con olive spaccate e zuccaro sopra» seguita nel servizio successivo da «Crostate di persiche duraci» cui seguono «Starnotti ripieni arrostiti allo spiedo, serviti con limoncelli tagliati e zuccaro sopra». O ancora «Ravioli senza spoglia» (nudi, di solo ripieno) serviti con cascio, zuccaro e cannella.
Era la cucina dei nobili, dell’alto clero e dei ricchi commercianti, quella che si poteva permettere una successione di diversi servizi «di credenza» (cioè preparati in anticipo e serviti dal credenziere) e di cucina e soprattutto che poteva largheggiare nell’uso delle spezie e dello «zuccaro» d’importazione esibendo ai convitati la propria agiatezza.
Alla restante parte della popolazione non restava che arrangiarsi con i dolci più poveri che spesso avevano una base di pane, come nel popolare pan di ramerino, e che troveranno in seguito la loro massima espressione nei babà napoletani e nel panettone milanese.
Per arricchire questi pani dolci venivano solitamente usati il miele e le composte di frutta, queste ultime preparate dalle massaie nelle lunghe giornate estive in cui la frutta maturava tutta assieme ed era più a buon mercato.
A consolarli il pensiero che, nel rinunciare al dolce, stavano salvando la loro anima perché, tra i sette peccati capitali enucleati intorno al 300 d.C. dal monaco e asceta greco Evagrio Pontico, quello di gola, se non il più grave, era ritenuto il meno giustificabile.
Scriveva alla fine dell’800 Carlo Téoli nella prefazione al «Del vitto e delle cene degli antichi» del naturalista fiorentino Giuseppe Averani: «Di tutti i peccati capitali il più abietto è la gola. V’è un giusto orgoglio, una santa ira, un’utile avarizia; l’invidia è in sostanza un anelito all’eccellenza; la lussuria è un traviamento dietro all’idea del bello; l’accidia spesso si confonde col dolce far niente delle menti pensose e poetiche; la gola non ha altro ideale che il tristo sacco».
Ai golosi si aprivano le porte dell’Inferno come confermato, nella sua Commedia, da Dante Alighieri che per il loro supplizio riesumò uno dei mostri della mitologia greca: Cerbero, il cane a tre teste il cui corpo anziché di pelo è ricoperto di serpenti velenosi.
E la gola, il peccato di gola, si associava al dolce e non al salato perché nella cultura popolare, che per forza di cose si adatta al contesto socio-economico della propria epoca, il salato era il necessario, il dolce il superfluo.
Poco importava al popolo minuto, alla piccola borghesia, che l’alto clero continuasse con i suoi sontuosi banchetti alternando dolce e salato secondo l’estro dei più grandi cuochi: Scappi, Messisbugo, Plàtina perché nella rassegnazione popolare i prelati non soggiacevano alle stesse regole del popolo.
Scriverà, con la sua solita penna sarcastica, Giuseppe Gioacchino Belli nel suo sonetto «Er Cardinale de pasto» (cioè di buon appetito):
«Cristo, che ddivorà! Ccome ssciroppa
Quer Cardinale mio, Dio l’abbi in pasce!
E la bbumba? Cojjoni si jje piasce!
Come ssciùria, per dio! come galoppa!
Quello? è ccorpo da fà bbarba de stoppa
A un zei conventi: chè ssarìa capasce
De maggnajjese er forno, la fornasce,
Er zacco, er mulo, e ’r mulinaro in groppa.
Lui se sfonna tre llibbre de merluzzo,
Quann’è vviggijja, a ccolazzione sola:
Capite si cche stommichi de struzzo?
Oh a lui davero er don de l’appitito
Lo sarva dar peccato de la gola,
Perché appena ha mmaggnato ha ggià smartito».
Bloccata dai precetti religiosi la cultura culinaria popolare vedeva nei dolci una sorta di diabolica tentazione al peccato di gola, ma non poté che soccombere alla cucina araba, che di quei precetti si faceva beffe, e allora per un lunghissimo periodo a diffondere nella Penisola la cultura del dolce pensarono proprio gli Arabi.
Così scriveva agli inizi del ‘900 Alberto Cougnet nella prefazione al testo di Giuseppe Ciocca «Il pasticciere e confettiere moderno», una sorta di libro sacro sulle origini della pasticceria moderna: «l’influenza della civilizzazione araba, in quelle tenebre barbariche del XI e XII secolo, oltre che nelle scienze esatte e speculative, nell’architettura, nell’alchimia e nelle varie arti e industrie manuali, si fece sentire anche nella tecnica e manipolazione di quelle dulciarie; tantoché, oltre alle essenze ed agli estratti o lambiccati (rosoli ed alkérmes), i camangiari [prelibatezze n.d.r.] di quell’epoca sono cosparsi ed impregnati di acque di rose, di belgioino, di sandalo, di ambra grigia, di muschio, di mastica e di altri aromi e spezierie orientali. Così, pure, la specialità di giulebbare [sciroppare n.d.r.], confetturare le frutta e di introdurne in varie squisite vivande, sia calde che gelate; di confezionare pasticchie gommose e paste di mandorle dolci e di pistacchi; torroni, salami di fichi nociati, delle uve zibibbe, semi di zucca, come, si osserva tuttora in Sicilia ed in Calabria, ma specialmente nella prima, dove le cassate colla zucca confetta, gli sfinciuni, gli spumoni, i vari lavori fatti con “pasta reale” l’agro cotto ed altri camangiari dolci (oltre al cuscussu, polentina araba che si mangia tuttora comunemente a Trapani) costituiscono ancora le sopravvivenze dell’alimurgica [applicazione della scienza delle erbe spontanee n.d.r.] orientale, importata da quei popoli d’origine semitica, quali gli Arabi ed i Mauri che stabilirono reami e si mantennero nei califfati di Spagna, sino al XVI secolo».
Per una singolare coincidenza temporale viene da pensare, anche se non vi sono riscontri documentali, che la pasticceria monastica, che proprio in quel periodo vide la sua massima fioritura, sia stata la naturale reazione a questa specie di colonizzazione dolciaria araba sospinta da Federico II di Svevia, Stupor Mundi, che, non casualmente finirà nell’Inferno dantesco anche lui.
Conventi e monasteri, valgano per tutti i Conventi di Santa Maria di Monte Oliveto e di Badia del Cancelliere ed il Monastero della Martorana a Palermo, il Real Convento della Maddalena a Napoli e il Monastero di Santa Rosa sulla Costiera amalfitana, si trasformarono in vere fucine di cultura pasticcera utilizzando, peraltro, gli stessi ingredienti, cristianizzati, degli Arabi.
Era una pasticceria semplice che aveva quali ingredienti di base la frutta secca, un misto di spezie in piccola quantità, la frutta candita o semplicemente essiccata; che non faceva uso, o lo faceva in modo limitato, di grassi, ed utilizzava al posto delle creme la ricotta.
Dolci che sono arrivati sino ai nostri giorni come la frutta martorana, i roccocò, i cannoli siciliani, le sfogliatelle.
Anche il cioccolato, a Roma è famoso quello dei Monaci Trappisti, è arrivato nella Penisola attraverso le istituzioni monastiche, cistercensi in particolare, dal Monasterio de Piedra di Nuévalos vicino Saragozza.
Come conciliare però questo rifiorire dolciario con il peccato di gola?
Una sorta di compromesso è stata la «riabilitazione» cristiana del Carnevale, le cui origini affondano nelle feste dionisiache e saturnali: nella Firenze del XV e XVI secolo furono i Medici ad organizzare le sfilate dei carri allegorici e, ovviamente, grandi mangiate, di dolci soprattutto.
A Roma, nel centro della cristianità, sarà Alessandro Farnese, divenuto Papa nel 1534 col nome di Paolo III, ad organizzare il Carnevale.
Il Carnevale cristiano aveva un triplice scopo: da un lato si sovrapponeva alle antiche feste pagane al punto da farle cadere nell’oblio, dall’altro, essendo una concessione della stessa autorità cristiana, ne ribadiva il potere durante il resto dell’anno; infine predisponeva al periodo di ristrettezze quaresimali che ne sarebbe seguito e che avrebbe in qualche misura compensato, con i digiuni ed i giorni di magro, gli eccessi carnevaleschi.
La vera svolta, tuttavia, è stata rappresentata dal collegamento, divenuto nel tempo indissolubile, tra cibo, ed in particolare dolci, e festività cristiane.
Al peccato di gola si è andata quindi sovrapponendo, soprattutto tra i ceti popolari, la santificazione della festa nel senso fatto proprio dall’Antico Testamento ed in particolare dal Deuteronomio (Dt 8, 10-14): «Mangerai dunque e ti sazierai e benedirai il Signore, il tuo Dio».
Accanto alle festività universali del Natale e della Pasqua, il moltiplicarsi delle feste patronali, e in generale correlate al culto dei Santi, e di quelle legate alla Madonna, nelle quali si manifesta, in tono confidenziale, la devozione popolare, ha così dato vita ad una serie di dolci tipicamente festivi tanto popolari al punto da far dimenticare il motivo stesso della festa oppure da mescolare sacro e profano come nelle cassatelle dedicate alla vergine e martire catanese Sant’Agata denominate, per il loro aspetto ed in correlazione al supplizio di cui fu vittima, minnuzzi ‘i sant’Àjita.
Così nel suo «San Giuseppe frittellaro» ironizzava Adolfo Giaquinto, che oltre che valentissimo cuoco fu anche brillante poeta romanesco, sull’usanza dei bignè di San Giuseppe: «San Giuseppe faceva er falegname
E benché fusse artista de talento
Nun se poteva mai levà la fame
Pe’ quanto lavorasse e stasse attento.
Un giorno fece “Ahò! Cambiamo vento,
Lassam’annà ‘ sto mestieraccio infame!”
Prese ‘na sporta, messe tutto drento
e ccaricò er somaro de legname.
Poi se n’annò in Egitto co’ Maria,
E doppo un par de giorni ch’arrivorno
Uprì de botto ‘na friggitoria.
Co’ le frittelle fece gran affari.
Apposta in tutta Roma, in de ‘sto giorno
Sortono fòra tanti frittellari».
Dalla sovrapposizione tra dolce e salato al dessert e alla rivoluzione dolce francese
In un giorno di festa o in occasione di una ricorrenza è ormai consuetudine concludere il pasto con un dolce o, come si dice, con un «dessert».
Quale sia l’origine di questa prassi, che ha rotto l’alternanza e la sovrapposizione tra dolce e salato tipica delle epoche precedenti, lo ha illustrato ancora Cougnet il quale narra che agli inizi del Rinascimento nei pranzi nobiliari e dell’alto clero iniziarono ad entrare nell’uso di servizio il «dessert» (in italiano desserta, cioè «disservita» o sparecchio della tavola) ed i «buttafuori» (boute-hors).
La desserta «comprendeva i tramezzi zuccherati di credenza, e consisteva in sfogliate ed altri pasticcetti leggeri che venivano serviti insieme a vini dolci – la maggior parte conci e drogati -, come l’ippocrasso, che consisteva in vino bianco con miele e spezierie.
Il “buttafuori” veniva servito, nei grandi pranzi d’apparato, allorchè i convitati, dopo essersi lavate le mani con acque profumate ed avere “rese le grazie”, passavano nelle “camere d’apparato” (chambre de parement) o salotti. Consistevano questi “buttafuori” in frutti canditi, in spezie differenti, oppure in semi di finocchietti, d’anici ed altre piccole treggee, destinate a facilitare la digestione. Le dame, sgranocchiando quelle “droghe di camera” (épicéries de chambre), bevevano anche del vino di sugo di melograno (grénache), del malvasia, e dei vini aromatizzati detti elettuari. Quindi venivano regalate delle eleganti bomboniere o cornetti ripieni di treggee (dragée), ed ognuno si congedava dall’anfitrione.
Treggea (anzi meglio tregea) dal greco tragema ch’era un confetto di seme d’anice o di finocchio, involto nel miele e polvere di gomma arabica. Se ne faceva anche con mandorle, pignuoli, pistacchi, avellane simili, oltre ai coriandoli cannellati».
Un uso, quello del boute-hors, arrivato sino ai nostri giorni nei pranzi e nelle cene nuziali in cui gli sposi, al momento del commiato, fanno dono agli invitati di bomboniere e sacchetti ricolmi di confetti.
Per la diffusione del dessert come lo intendiamo oggi, cioè come portata dolce finale, si dovrà attendere la Rivoluzione francese: sarà solo allora che i grandi cuochi, ritrovatisi improvvisamente disoccupati, trasferiranno alla nascente borghesia i riti dei grandi pranzi nobiliari e lo faranno entrando fisicamente nelle case borghesi o attraverso una nuova forma, più sofisticata, di preparazione e vendita del cibo di strada: il ristorante.
Se infatti nelle osterie e nelle trattorie non mancavano i dolci, soprattutto quelli popolari come le ciambelle accompagnate da vini dolci o dal famoso rosolio (il «risorio der perfett’amore» del Belli) di pasticceria come scienza vera e propria non si poteva ancora parlare e si era ancora a metà tra l’evoluzione della panetteria (a cui soprattutto in Francia è ancora associata) e la cucina.
A renderla scienza nobile sarà infatti l’haute-cuisine, che nei ristoranti di maggior pregio troverà spazio e ragione ed il cui maggiore esponente è stato Marie-Antoine Carême detto pomposamente, ma non senza fondamento, il Palladio dell’haute-cuisine.
A lui, che morirà prematuramente a 49 anni, è attribuita la frase, qui tradotta in Italiano: «Esistono cinque Arti belle: la Pittura, la Poesia, la Musica, la Scultura e l’Architettura, la cui branca principale è la Pasticceria».
Abbattuti i dogmi religiosi, dimenticato il peccato di gola, il dolce si tramutò da cibo in pura estetica, arte visiva prima che gustativa e la sua preparazione si distaccò anche fisicamente dalla cucina per trasferirsi in un luogo a lui dedicato: il laboratorio.
Pasticceria indica ora, al contempo, una scienza, un’arte ed un luogo che unisce spesso produzione e vendita di dolci.
La pasticceria contemporanea
Pellegrino Artusi prima e Ada Boni poi e tutti i testi che nel corso degli anni si sono succeduti in questa apprezzata branca dell’editoria hanno portato, in misura e modi diversi, la grande pasticceria di origine francese nelle cucine degli Italiani.
Realizzare un torta, magari multistrato, una crema, una bavarese ed altre preparazioni dolciarie anche sofisticate non sembra impossibile sulla base dei testi culinari che vanno per la maggiore, assistendo davanti alla televisione all’opera dei Maestri pasticceri o guidati passo passo dai tutorial che si trovano in rete e sui social e questo, assieme alla sostanziale diminuzione del costo delle materie prime (fior di farina, zucchero, spezie, liquori) ha modificato il gusto e l’idea stessa di pasticceria.
I dolci di origine francese o francesizzati hanno preso sopravvento sui nostri dolci tradizionali che sopravvivono solo grazie al loro carattere affettivo ed evocativo. L’industrializzazione e la grande distribuzione hanno fatto il resto e nuove feste si sono aggiunte a quelle religiose: halloween, col suo dolcetto o scherzetto, San Valentino con i cioccolatini e poi la festa del papà (in cui i padri si trasformano in inguaribili golosi etilisti), quella della mamma, quella dei nonni.
Il dolce, da irraggiungibile che era, si è fatto cibo quotidiano e la pubblicità insegue il dolce perfetto: quello buonissimo, ma che non fa ingrassare.
L’Occidente nel dolce manifesta tutta la sua opulenza, ma qualcosa si è perduto per sempre: il desiderio, l’attesa del dolce e, in fondo, la sua meraviglia.
Foto di congerdesign da Pixabay
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