La Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro le Donne è stata istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 17 dicembre 1999 con la risoluzione n.54/2013 che fece seguito alla Dichiarazione sull’Eliminazione della Violenza contro le Donne, emanata dallo stesso organo dell’ ONU il 20 dicembre1993, ove venne data la definizione di essa come “ogni atto di violenza basato sul genere che risulti, o potrebbe risultare in sofferenza e danni fisici o psicologici per le donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o l’arbitraria deprivazione della libertà, che occorra in pubblico o nella vita privata”.
Le relative celebrazioni sono iniziate il 25 novembre di ogni anno per ricordare l’uccisione delle tre sorelle Mirabal (Patria Mercedes, María Argentina Minerva e Antonia María Teresa) che, opponendosi alla dittatura di Rafael Leónidas Trujillo a Santo Domingo, dopo essere state brutalmente torturate, furono assassinate il 25 novembre 1960; questa fu la fine delle donne rivoluzionarie, come del resto è avvenuto per secoli quando donne colpevoli di saper essere libere, intelligenti ed indipendenti, venivano bruciate vive perché considerate streghe. Per tutte, basti ricordare il rogo su cui perì Giovanna D’Arco.
Orbene, deve essere dichiarato con fermezza che gli atti di violenza contro le donne (che purtroppo continuano ad essere compiuti) rappresentano il vero ostacolo al raggiungimento dell’uguaglianza sostanziale, soprattutto dell’ambito delle aspettative degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG).
Nella catalogazione delle forme di violenza che impediscono lo sviluppo naturale delle donne nella società civile, si distinguono quattro tipologie: la prima è quella della violenza intima causata dal partner, ovvero maltrattamenti, abusi psicologici, stupri coniugali e femminicidi (che sono gli omicidi di matrice passionale); la seconda è quella di natura prettamente sessuale, posta in essere con vessazioni come atti sessuali forzati, attenzioni sessuali non richieste, matrimoni forzati, stalking, e persecuzioni on line; la terza si attua con il traffico di donne mediante lo sfruttamento sessuale attraverso l’induzione alla prostituzione e riduzione in schiavitù; la quarta, mediante la mutilazione dei genitali femminili, con danni fisici irreversibili.
Dall’inizio del 2024, in Italia, solo per motivi passionali, sono state uccise 99 donne, le vittime del 2023 sono state117, nel 2022 sono state126, nel 2021 sono state 119. La domanda è sempre la stessa: cosa scatta nella mente dell’uomo che uccide la donna che spesso è la madre dei suoi figli, che addirittura dichiara di amare? Possibile mai che la concezione della donna come sottomessa all’uomo è ancora così dura a morire?
Il numero delle denunce presentate dalle donne è (per fortuna) in aumento ma i tribunali penali faticano (purtroppo) a gestire il carico giudiziario; va infatti detto che le raccomandazioni diramate per cercare di bloccare l’uomo violento sono ormai note, ad esempio raccogliere e conservare le prove di minacce o di stalking, come le lettere, i bigliettini, i messaggi telefonici o sui social (che ormai costituiscono prove legalmente valide), i video, le fotografie minacciose, le email, gli orari dei pedinamenti e permettono di attivare i meccanismi di protezione da parte delle Forze dell’Ordine e dei Centri Antiviolenza.
Si arriva a questi disastri proprio per carenze educazionali e culturali di base e così, quando la donna prende finalmente coscienza della situazione di inferiorità e dipendenza dal partner e tenta di reagire, a volte è ormai davvero troppo tardi.
E’ chiaro che la violenza sulla donna nasce dal bisogno strutturale economico collettivo di mantenerla nella condizione di subordinazione per costringerla a lavorare soltanto per prendersi cura degli altri, soprattutto nell’ambiente della famiglia, a prescindere completamente dalle sue qualità e attitudini a volersi occuparsi di altro; proprio in questa assurda pretesa si trova la principale radice della disparità e discriminazione di genere.
Su detto ultimo passaggio vale la pena di approfondire il sottile aspetto della violenza economica in senso stretto, sempre maggiormente dedicato all’esame delle corti di giustizia, particolarmente sensibilizzate alla valutazione dell’entità del danno, talora invisibile, che ne deriva: di fatto, ogni donna che decide di non lavorare o addirittura lascia il proprio lavoro retribuito per dedicarsi esclusivamente alla cura della famiglia si espone al potenziale rischio di subire la violenza economica, consistente nel trovarsi nell’inaspettata condizione di mancanza di disponibilità economica in funzione dell’eventuale scelta del marito o compagno (qui con inevitabile riduzione di tutele) di limitare la libertà d’uso del danaro sul presupposto che, siccome è soltanto lui a guadagnarlo, ne dispone come vuole.
Basti pensare al diffuso caso del marito che, nel controllare come la moglie spende il denaro, minaccia di negarglielo se non gradisce il modo o il motivo per cui lo ha speso, oppure quando lui le nega la ricerca di un asilo nido per il neonato o l’aiuto di una babysitter, oppure anche come quando la ostacola nella volontà di reperire un lavoro, magari per sostenere le spese per i figli; in verità, le ipotesi di questo tipo sono moltissime.
Fatto è che i mariti-compagni-padri non sono mai consapevoli di quali e quante siano le spese per i figli e quindi, in caso di separazione, sono poi gli stessi uomini a protestare perché partono dal presupposto che le loro “ex donne” pretendano troppi soldi, laddove il “lavoro di cura in senso stretto” è alto e faticoso, ma viene considerato, ai fini della sua quantificazione, soltanto nel momento in cui la famiglia si disgrega.
Questa incontestabile forma di fragilità in cui viene a trovarsi la donna costituisce un dato frequente e ancora molto poco valutato sotto il profilo della violenza in senso stretto, mentre i fascicoli degli affollatissimi tribunali civili contengono documenti che riguardano essenzialmente l’analisi, caso per caso, di questo enorme quanto persistente gap economico tra uomini e donne, soprattutto durante la vita matrimoniale o di convivenza.
In Italia, nessuna iniziativa di legge o di politica economica si è finora rivelata idonea a favorire in concreto la parità e la genitorialità condivisa mediante la creazione di infrastrutture sociali, non solo di asili nido, ma soprattutto di scuole elementari e medie pubbliche che, con la chiusura alle ore 16:30, laddove le aziende chiudono notoriamente dopo le ore 17:00, di fatto costringono le madri a chiedere di ridurre l’orario di lavoro tramite part time (che non tutti accettano) o a ricorrere a scuole private, accessibili soltanto alle classi più abbienti e a danno di chi, invece, ne avrebbe maggior bisogno.
Ma anche il mondo della politica è composto prevalentemente da uomini, evidentemente inconsapevoli anche degli effetti positivi dell’occupazione femminile sul P.I.L. (Prodotto Interno Lordo) e della conseguente ricchezza che essa produrrebbe a favore di tutto il sistema economico nazionale; la discriminazione salariale tra uomini e donne è ancora consistente per evidenti quanto notorie segregazioni nei ruoli e distribuzione degli incarichi, ove – secondo l’ISTAT – le donne guadagnano mediamente il 13% in meno rispetto agli uomini per ogni ora di lavoro e, infine – secondo l’INPS – è stato rilevato che le retribuzioni medie settimanali lorde degli uomini nel 2023 sono state in media pari a 643 euro, superiori del 28,34% rispetto ai 501 euro medi percepiti dalle donne.
Anche questa – se pur in doppiopetto e tailleur – è violenza economica.
Ci sarebbe ancora molto da dire, ma bisogna concludere, valendo la pena di riportare un’affermazione sull’argomento in generale espressa da António Guterres, attuale Segretario generale delle Nazioni Unite: “La violenza in ogni parte della società ci colpisce tutti. Dalle cicatrici della prossima generazione al deterioramento del tessuto sociale. Possiamo disegnare una linea retta tra la violenza contro le donne, l’oppressione civile e il conflitto violento.”
Foto di akiragiulia da Pixabay
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