«Ustacchio, la viggija de Natale, tu mméttete de guardia sur portone de cuarche mmonziggnore o ccardinale, E vvederai entrà sta priscissione. Mo entra una cassetta de torrone, mo entra un barilozzo de caviale, mo er porco, mo er pollastro, mo er cappone, e mmo er fiasco de vino padronale. Poi entra er gallinaccio, poi l’abbacchio, l’oliva dorce, er pesce de Fojjano, l’ojjo, er tonno, e l’inguilla de Comacchio. Inzomma, inzino a nnotte, a mmano a mmano, Tu llì tt’accorgerai, padron Ustacchio, cuant’è ddivoto er popolo romano».
Con la sua solita vena ironica Giuseppe Gioachino Belli ci ha descritto ne «La viggija de Natale», attraverso l’omaggio servile dei clientes, quanto poteva essere ricca la mensa di Natale di una famiglia di potere della Roma papalina della metà dell’800.
Neppure il Belli, che dei vizi e delle virtù popolari è stato attento osservatore e cantore, ha però risposto alla domanda: perché si mangia tanto durante le festività natalizie?
Dalla Vigilia sino a Santo Stefano ovunque in Italia, e non solo, i pasti, che si prolungano per il numero cospicuo delle portate, sembrano fondersi in un’unica mangiata intervallata da brevi pause di riposo.
Se l’opulenza del pranzo pasquale è in qualche modo giustificata dal digiuno quaresimale perché invece a Natale dobbiamo rimpinzarci?
Se celebriamo la nascita del Salvatore in una povera grotta riscaldata solo dal tepore offerto dal bue e dall’asinello, il nostro eccedere nel cibo non stride forse col contesto?
L’interpretazione di Charles Dickens
«A Christmas Carol» (in italiano «Canto di Natale») è forse il racconto più famoso sul Natale, al punto da ricevere persino una trasposizione animata della Disney: «Mickey’s Christmas Carol» in italiano «Canto di Natale di Topolino».
La storia è quella della redenzione dell’avaro Ebenezer Scrooge grazie al Natale e tutto il racconto è permeato da un’anelito di riconciliazione natalizia nella quale il cibo assolve la sua parte: nel Canto di Natale di Dickens il cibo natalizio è a sua volta dono, generosità, accoglienza, felicità.
Un’interpretazione attendibile per la società vittoriana, ma tutto sommato limitata una cerchia culturale relativamente ristretta anche se, a partire dal secondo dopoguerra e grazie alla cinematografia, il Natale nordamericano, erede di quello vittoriano, è divenuto prevalente nei simboli e nel costume: Babbo Natale, l’albero, le decorazioni: «La vita è meravigliosa» di Frank Capra è il film di Natale per antonomasia.
I Saturnalia e il Dies Natalis Solis Invicti
La celebrazione del Natale il 25 dicembre è una palese sostituzione dei culti pagani.
Costantino, che praticamente la impose nel 330 d.C. seguito, nel 337 d.C., da Papa Giulio I, era un adepto del culto del Sol Invictus al punto da farne il simbolo della propria moneta.
Il Dies Natalis Solis Invicti (letteralmente giorno di nascita del Sole Invincibile) s’inseriva nel Culto del dio Sole e la sua celebrazione il 25 dicembre era legata all’osservazione astronomica visto che in quel giorno, coincidente con il solstizio d’inverno secondo i calendari allora in uso, si rendeva visibile la rinascita del Sole.
A sua volta il culto del dio Sole, che nel corso dell’Impero Romano ha avuto alterne fortune, era divenuto uno degli elementi unificanti: comune sia ai popoli nordici sin dall’epoca preistorica, e che nella denominazione della domenica hanno conservato la parola Sole, sia a quelli orientali con i culti del dio Sole babilonese Shamash, di Mitra e della dea Ishtar.
Nel complesso e variegato calendario liturgico dei Romani il Dies Natalis Solis Invicti seguiva i Saturnalia, le feste dedicate al dio Saturno, il dio della prosperità, nel corso dei quali si celebravano ricchi banchetti a cui, in una sorta di Carnevale, venivano accettati anche gli schiavi, ci si rivolgevano formule augurali («Io, Saturnalia») e ci si scambiavano piccoli doni: tutti elementi che possiamo riconoscere nella celebrazione laica del Natale contemporaneo, mentre a stretto rigore il giorno dedicato ai doni dovrebbe essere l’Epifania del 6 gennaio coincidente con l’offerta al Bambino Gesù da parte dei Magi ed in effetti, prima dello stravolgimento consumistico del secondo dopoguerra, era la Befana che portava i doni ed il suo giorno era quello dell’attesa infantile.
È quindi logico supporre che l’abbondanza di cibo sulle tavole natalizie sia un residuo dei culti precristiani, mentre la sequenza dei pasti e la riunione delle famiglie sono un portato delle celebrazioni cristiane più antiche.
La vigilia di magro ed il brodo di Natale
Per coloro che osservano le tradizioni, la vigilia di Natale, che nella Roma papalina seguiva il cottio (dal latino medievale coctigium) l’asta del pesce al Portico d’Ottavia, è dominata dai piatti a base di pesce, retaggio delle norme di Diritto Canonico che, ancora nella versione del 1917, stabilivano come giorno di magro la Vigilia di Natale.
L’uso del brodo di Natale, arricchito dalle paste all’uovo semplici o ripiene, deriva invece da un rito tutto contadino.
Anticamente, infatti, dopo la cena della Vigilia iniziava la veglia, che si protraeva fino alle prime luci dell’alba, in chiese fredde e spesso distanti dai luoghi di residenza.
A beneficio di coloro avevano partecipato alla veglia e che dovevano rientrare, a piedi o a dorso di mulo, alle proprie case lontane veniva quindi preparato un brodo corroborante detto brodo di conforto.
Lo stesso brodo che veniva poi servito nel pranzo di Natale alle famiglie finalmente riunite dalle celebrazioni liturgiche.
Non erat locus ei
La celebrazione della nascita di Gesù è la rappresentazione di un dramma: quello di una donna giovanissima che non ha mai conosciuto uomo, ma che è giunta al termine di una gravidanza ed ha confessato al suo legittimo consorte che il bimbo che porta in grembo non è suo.
Una donna costretta dall’editto di un Imperatore lontanissimo ad affrontare un lungo viaggio nonostante le sue condizioni e soprattutto che, arrivata al termine del viaggio ed al momento del parto, viene scacciata, non trova un posto in cui partorire né un’ostetrica che l’assista.
Cosa accada dopo il parto i testi sacri ufficiali non lo rivelano, ma in quelli apocrifi c’è tutta una narrazione dell’accoglienza delle donne accorse alla grotta, del rifocillare e accudire la puerpera ed il neonato, dei pastori nel consolare Giuseppe, che invano è andato bussando alle porte alla ricerca di assistenza.
Non erat locus ei, non c’era posto per lui, per il Salvatore: un dramma che il Poverello di Assisi ha voluto rappresentare in carne ed ossa con il suo Presepe.
Con il benessere i nostri pasti natalizi si sono fatti sempre più ricchi e sofisticati al punto che il padron Ustacchio del Belli, per vedere la processione di prelibatezze, potrebbe appostarsi di guardia al portone di qualsiasi casa benestante.
Eppure, se il Natale di Dickens ci appare lontano, qualcosa del suo spirito, quell’anelito di trasformare l’indifferenza e l’egoismo in accoglienza possiamo recuperarlo nelle nostre mense natalizie.
Con cibi che accontentino tutti, che diano al Natale quell’impronta di calore e di accoglienza alla quale tutti aneliamo.
Perché di nessuno si possa dire: non erat locus ei.
Buon Natale da «Il cibo racconta».
Foto di Alexander Fox | PlaNet Fox da Pixabay
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