Il dibattito sulla convenienza o meno della permanenza dell’Italia nell’ euro zona, tornato attuale con il progresso elettorale delle forze euro-scettiche che si preparano a governare il paese, fa tornare alla mente la figura dell’ex amministratore delegato della FIAT, Cesare Romiti, oggi novantacinquenne, che, alla fine del secolo scorso cominciò a tuonare contro la moneta unica, prevedendo tutte le sciagure possibili, per l’Italia, nel caso della sua introduzione.
Chiaramente, dietro Romiti c’era – in primis – la FIAT dell’avvocato Gianni Agnelli, allora “dominus” dell’economia italiana e proprietario del media “La Stampa”; non poteva mancare l’oppositore al governo in carica che voleva l’introduzione dell’euro e cioè Silvio Berlusconi, monopolista del settore televisivo privato e proprietario di altre testate di centro-destra. Infine seguiva la Confindustria, sapientemente controllata dagli imprenditori citati, con il suo giornale “Il Sole 24 Ore” e presente con quote di controllo nella proprietà della quasi totalità dei giornali.
Non appena scattò l’operazione euro (1° gennaio 2002), sorse in tutta Italia una furiosa campagna di stampa sulla presunta diminuzione del valore d’acquisto del portafoglio degli italiani. Lo strapotere mediatico dei loro promotori fece sì che la loro tesi divenne verità indiscussa e ancor oggi, a diciassette anni e mezzo di distanza, è data per assodata. Ma fu proprio vero, che con l’introduzione dell’euro, a rimetterci sono stati i cittadini? Affidiamoci ai dati.
L’euro non è mai stato un fattore di povertà ma il contrario
Il 31 dicembre 2001, data di introduzione della moneta unica, il cambio euro-dollaro era pari a 0,89, cioè con 100 euro si potevano comprare merci del valore di 89 dollari; quello euro-sterlina era 0,61: 100 euro=61 sterline. L’indice MIB chiuse a 22.232 punti. Oggi dopo, oltre diciassette anni e la più grossa crisi economica mondiale della storia, il cambio euro-dollaro è 1,17 (con 100 euro si comprano merci del valore di 117 dollari) e quello euro-sterlina è 0,87 (100 euro=87 sterline).
Ciò significa che, dato che la stragrande maggioranza delle operazioni commerciali mondiali (petrolio, benzina e gas compresi) si effettua in dollari o sterline, il potere di acquisto del cittadino europeo e, quindi italiano, in termini reali è superiore del 30% rispetto a quando c’era la lira! In particolare, ci hanno guadagnato i lavoratori dipendenti, quelli cioè a reddito fisso che, nel caso opposto (svalutazione monetaria) sarebbero stati penalizzati. Ciò non lo sostiene soltanto il cronista ma tutti i trattati di economia.
Inoltre l’indice MIB, che oggi è un indicatore di stabilità dei risparmi degli italiani, al momento in cui si scrive, è attestato a 22.770 punti. Nonostante le micidiali crisi mondiali di borsa del primo quindicennio del XXI secolo, quindi, il risparmio azionario degli italiani risulta essere stato complessivamente tutelato. Allora, che cosa paventava, vent’anni fa, Cesare Romiti e per quali motivi ancor oggi, gran parte dei mass media e dei politici collegati tuonano contro l’Euro e l’Europa?
Con la lira erano gli industriali a guadagnare e ci rimettevano i lavoratori a reddito fisso
Il capitano d’industria Cesare Romiti aveva in testa di tener l’Italia fuori dall’ Euro per mantenere in capo alla Banca d’Italia la facoltà di svalutarla periodicamente. Cosa che in Italia, i governi della prima repubblica – ampiamente “foraggiati” dagli industriali, come si è visto con il caso tangentopoli – avevano fatto regolarmente. Ciò permetteva agli imprenditori di recuperare quella competitività che non erano in grado (o non volevano) ottenere con una politica di investimenti produttivi. Nel 1976, per acquistare merci del valore di 1000 dollari erano necessarie 832.000 lire; alla data d’introduzione dell’euro la merce dello stesso valore (gas, petrolio, benzina e quant’altro) ben 2.192.000 lire! Perché tutto ciò?
Perché quando, ogni due-cinque anni i nostri prodotti non erano più competitivi, si svalutava la lira. Così le nostre merci, all’estero, venivano acquistate in moneta estera apprezzata e le nostre industrie potevano tornare a esportare. Ma, in questo modo si importava inflazione e si sosteneva un’industria che poteva rinunciare agli investimenti produttivi e ad essere “realmente” competitiva. I profitti d’impresa, quindi, non venivano reinvestiti ma finivano tutti in tasca agli imprenditori.
A rimetterci erano soprattutto i lavoratori dipendenti che, nonostante la cd. “scala mobile” non riuscivano mai a “sterilizzare” gli effetti dell’inflazione della moneta nelle loro tasche. Ecco perché Romiti (e coloro che lo spalleggiavano) non voleva l’introduzione dell’euro ed ecco i motivi della campagna di stampa sui falsi effetti inflattivi della moneta unica. Inoltre, ecco perché i mass media, oggi ancor più in possesso degli industriali, e i politici collegati, tuonano per l’uscita dell’Italia dall’euro.
L’unica vera ricetta per la nostra economia: investimenti produttivi privati
C’era un altro fattore economico, nell’era pre-euro che faceva tanto gongolare i nostri industriali: il sostegno pubblico alle imprese. In quell’età dell’oro, l’industria italiana era la prima in Europa per incremento della produzione e, a livello mondiale, faceva concorrenza all’industria giapponese. L’economia italiana, infatti, per almeno un venticinquennio (1969-1992), è stata sostenuta quasi esclusivamente dagli investimenti pubblici.
L’entità di tale sostegno, però, ha determinato la crescita abnorme del debito pubblico italiano sino al livello attuale. Quando, a partire dal 1992, ciò è stato possibile solo in misura molto ridotta, a seguito degli impegni assunti con il Trattato di Maastricht, la crescita media del Pil italiano non ha mai superato l’1-1,5% annuo, cioè al di sotto della media europea. Ma non si può addossare all’Euro o all’ Unione Europea la colpa di ciò. Se l’imprenditoria italiana non investe, non è colpa dell’Europa.
Un’economia che cresce esclusivamente solo con gli investimenti pubblici o grazie all’inflazione della propria moneta è un’economia carente sotto il profilo imprenditoriale. Diversamente, non si comprende come abbiano fatto a crescere quella tedesca, olandese o scandinava, che hanno sempre avuto una moneta stabile e un livello di investimenti pubblici inferiore al nostro.
E invece si comprende, eccome. Se si pensa che i tedeschi hanno fatto bail out del proprio debito pubblico, imponendo successivamente agli altri europei il bail in. Che La Fiat fosse contro l’euro mi torna cosa inedita. Perfino De Benedetti ha ribadito recentemente che la grande industria e imprenditoria italiana (tra cui ha menzionato esplicitamente Gianni Agnelli) voleva assolutamente l’euro. Chi sarebbero, secondo Lei, questi industriali contrari all’euro ? Ne citi pure qualcuno, se può. Anche la Lega e gli imprenditori del Nord volevano euro e immigrazione, anche se adesso sbandierano “argomenti” contrari. A me pare che ad avere il carattere di propaganda sia proprio ciò che Lei scrive. Per quale motivo, poi, non cita la Cina ? Tutti i settori industriali e mercantili privati cinesi sono sostenuti da finanziamenti pubblici, perché la Cina è ancora una repubblica popolare. Anche il settore della ricerca petrolifera, negli Stati Uniti, è sostenuto da finanza pubblica. Questi paesi sono dunque “carenti sotto il profilo imprenditoriale”, come l’Italia che racconta Lei ? A me non sembra…
Gentile sig. Paolo, l’articolo di cui sopra verte su tre punti fondamentali: 1) L’ingresso dell’Italia nell’euro fu fortemente contestato da Cesare Romiti, già amministratore delegato del maggior gruppo industriale italiano, il cui azionista di riferimento era stato anche Presidente della Confindustria; 2) Il fronte rappresentato da Romiti era contrario all’introduzione di una moneta stabile perché non avrebbe più beneficiato delle periodiche svalutazioni della moneta che gli consentiva, tra l’altro, di risparmiare sul costo del lavoro sui propri dipendenti; 3) L’economia italiana prima dell’introduzione dell’euro è stata sostenuta quasi esclusivamente dagli investimenti pubblici ed è stato ciò che ha determinato l’abnorme crescita del debito pubblico. Prendo atto che nelle sue osservazioni non si contesta nessuno di questi punti fondamentali. Penso che convenga con me che in una situazione dove gli investimenti pubblici sono drasticamente diminuiti (anche per l’elevato deficit statale), l’economia può crescere solo se sostenuta da investimenti privati. Diversamente non può che registrarsi un crescita inferiore sia nei confronti delle altre economie capitalistiche sostenute da forti investimenti privati (UE e Stati Uniti) sia nei confronti di quelle dove l’intervento pubblico è ancora preponderante (Cina). Sugli altri aspetti di dettaglio, da Lei ampiamente trattati, Le lascio l’ultima parola, come penso che il lettore abbia diritto. In ogni caso sono d’accordo con lei che tali Stati non siano affatto carenti sotto il profilo imprenditoriale.