Piano Trump. Gli Stati Uniti stanno lavorando a un progetto di assetto dell’area israelo-palestinese. E’ un’evoluzione della teoria dei “due Stati”, propugnata dall’ONU. Con una serie di punti fermi più favorevoli ad Israele. Si prevede l’annessione delle le colonie ebraiche in Cisgiordania e delle strade di collegamento alla madrepatria. Così come della città vecchia di Gerusalemme.
La Nuova Palestina comprenderebbe anche i sobborghi di Gerusalemme Est, tra i quali uno da erigere a Capitale. Si propone la realizzazione di un autostrada a 30 metri dal suolo per il collegamento tra Gaza e di ciò che resta della Cisgiordania palestinese. Nessun ritorno nei luoghi di origine da parte dei palestinesi è previsto nel Piano Trump. Tuttavia, gli Stati Uniti fanno ventilare un gigantesco programma economico a loro carico per risollevare le condizioni del nuovo Stato.
Il Piano Trump dà per definitive le iniziative unilaterali già intraprese da Israele. In particolare, l’edificazione del muro di confine tra gli insediamenti ebraici e palestinesi, in Cisgiordania. Inoltre: la proclamazione di Gerusalemme (Ovest) Capitale e l’annessione delle alture del Golan, già appartenenti alla Siria.
Il Piano Trump fa rimpiangere il progetto di pace del 2000 che i palestinesi rifiutarono
Il Piano Trump è ancor più riduttivo, per i palestinesi, di quello proposto nel 2000, a Camp David. Israele aveva offerto a Yasser Arafāt uno Stato palestinese nel 95% della Cisgiordania e a Gaza. Inoltre: l’internazionalizzazione della città vecchia di Gerusalemme, il ritorno o un indennizzo a un limitato numero di profughi. Arafāt, invece, richiedeva il riconoscimento del diritto di tutti a tornare nei luoghi d’origine precedenti alla guerra del 1948. Perciò rifiutò l’offerta.
In realtà quel presunto diritto è inesistente o impossibile da attuare. Dopo settantuno anni, infatti, pochi sono i profughi di allora ancora viventi. Inoltre, le loro antiche proprietà sono state completamente trasformate. Se non addirittura regolarmente acquistate dagli israeliani. Riconoscere genericamente a tutti i palestinesi il diritto a stanziarsi in Israele in base a un ancestrale diritto è un “mostro giuridico”. Pochi però lo dicono.
Sono altre le mistificazioni della stampa internazionale che, spesso, vengono date per scontate. Tecnicamente, infatti, non esistono più “territori occupati” da Israele, sul piano del diritto internazionale. A parte le disabitate alture del Golan, non facenti parte della Palestina.
Lo Stato palestinese, infatti, è stato proclamato, in esilio, soltanto nel 1988. Molti anni dopo le due guerre del 1948 e del 1967. Prima del 1967, a Gaza e in Cisgiordania la comunità internazionale riconosceva la sovranità, rispettivamente, dell’Egitto e della Giordania. Sono stati tali Stati a compiere, per primi, atti di guerra contro Israele. Questa si è soltanto difesa, occupando territori appartenenti all’Egitto e alla Giordania.
La pace, tra Israele, Egitto e Giordania, è già stata stretta più di 25 anni fa
Ora, con Egitto e Giordania, Israele ha sottoscritto i trattati di pace, rispettivamente nel 1979 e nel 1993. In base agli accordi, Egitto ha rinunciato alla striscia di Gaza e la Giordania alla sovranità sulla Cisgiordania. Lo stato di guerra tra Israele e i due Stati che avevano sovranità su Gaza e sulla Cisgiordania, quindi, è da tempo terminato.
Negli accordi di Oslo (1993) si prevedeva un’intesa tra Israele e la costituenda Autorità Nazionale della Palestina. Ciò, al fine di dare un nuovo assetto della Cisgiordania e rendere così effettiva la proclamazione dello Stato palestinese.
Da nessuna parte era scritto che il nuovo Stato dovesse coincidere con i territori lasciati dalla Giordania a Israele. Inoltre, lo stesso riconoscimento palestinese dello Stato israeliano rende improponibile la richiesta di ritorno nelle sedi israeliane di origine. La fissazione consensuale di un confine è, infatti, un’autolimitazione del diritto di circolazione e di stabilimento dei cittadini dei due Stati contraenti. E allora perché nessuno lo dice?
Al problema palestinese non ci sarà soluzione sino alla costituzione di una “Grande Israele”
In realtà il futuro dei palestinesi di Gaza e della Cisgiordania non interessa a nessuno. I paesi arabi “moderati” fanno affari con gli Stati Uniti e hanno da tempo delegato Washington a risolvere la situazione. Gli accordi del 1979, del 1993 e il summit fallito del 2000, infatti, sono stati tutti effettuati sotto l’egida degli Stati Uniti.
All’Iran interessa solo l’aspetto “settentrionale” della questione medio orientale. Cioè, garantire uno sbocco mediterraneo alla sua produzione petrolifera e di gas naturale. In Siria, però, con la presenza russa, Teheran si trova in una scomoda posizione. Rimane solo la Turchia, interessata alla situazione di Gaza. Erdogan, tuttavia, sa che non può contraddire troppo i “desiderata” di Mosca e Washington.
Gli israeliani si sono ritirati da Gaza già dal 2005, consegnandola all’Autorità Nazionale Palestinese. A questo punto, a Gaza è intervenuta Hamas. Tale organizzazione rifiuta il riconoscimento di Israele effettuato da Arafat nel 1988 e si ritiene ancora in guerra sin dal 1948.
Alle azioni intraprese da Hamas verso Israele, questa ha risposto con rappresaglie che hanno provocato vittime civili. L’ONU e le organizzazioni islamiche hanno più volte condannato tali atti di rappresaglia. Più che altro, per nascondere il proprio disinteresse sulla questione.
Stando così le cose, è difficile che l’Autorità Nazionale Palestinese accetti il Piano Trump, così come ha rifiutato altri piani, in passato. Passeranno quindi altri anni. Sino alla riproposizione di piani sempre meno favorevoli ai palestinesi. Adottando la cosiddetta “strategia del carciofo”. Sinché dei “due Stati” che si vuole stanziati nell’area ne resterà solo uno: la “Grande Israele”. Con all’interno alcune “riserve indiane” sottomesse e sovrappopolate.
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