Dopo aver diviso gl’Italiani con una discutibile bevanda estiva, il tè alla pesca introdotto sul mercato come prodotto industriale da Ferrero nel 1994, la pesca è prepotentemente tornata a far parlare di sé grazie ad una fortunata campagna pubblicitaria della Esselunga: il cortometraggio dal titolo «La pesca» ambientato a Milano, firmato da Rudi Rosenberg e Small e realizzato da Indiana Production.
Un video che in altri tempi sarebbe passato probabilmente sotto silenzio, ma che grazie al particolare contesto politico è riuscito in brevissimo tempo a diventare virale facendo dimenticare l’inflazione, la cronaca nera (costellata di femminicidi ed abusi sulle donne) e persino la guerra in Ucraina.
Ovviamente non sono mancate le polemiche, che hanno raggiunto anche i vertici del Governo, le parodie, le critiche e le analisi sociologiche visto che il cortometraggio ha per protagonista una bambina, Emma, figlia di genitori separati, la quale si fa acquistare dalla mamma (interpretata da Giulia Briata) una pesca, ma non la mangia perché ha già in mente un suo progetto segreto: quello di darla al papà (interpretato da Mauro Santopietro) dicendogli, mentendo (ma i bambini non dovrebbero dire solo la verità?) che gliela manda la mamma, la quale ovviamente è all’oscuro di tutto, mentre il padre, che ha capito tutto, consola la bimba dicendole che chiamerà la mamma per ringraziarla.
Con un tecnica cara a Carosello, altro elemento di richiamo emotivo, la Esselunga compare brevemento solo nel titolo e alla fine del cortometraggio seguita dallo slogan «Non c’è spesa che non sia importante» ed entrano in ballo tutti gli elementi più cari alla pubblicità televisiva: il cibo, i bambini, la famiglia, le emozioni.
Perché proprio una pesca
Nel cortometraggio la bambina si sottrae al controllo materno per andare a prendere una pesca: proprio una pesca non un altro frutto.
Il fatto che questa pesca, ovviamente perfetta come tutto il cibo della pubblicità e che cattura tutta la parte iniziale dello spot visto che arriva alla cassa senza neppure essere messa nel sacchetto né tantomeno pesata, sia stata scelta tra tutti gli altri frutti presenti nel punto vendita si lega strettamente alla simbologia della pesca: nel linguaggio dell’arte (si veda «1,001 Symbols: An Illustrated Guide to Imagery and Its Meaning» di Jack Tresidder) la pesca rappresenta infatti il cuore umano.
Un cuore puro come quello della bambina che la sceglie: da sempre infatti i bambini sono stati usati nella pubblicità per la loro purezza e la loro bontà che li rendono tra i personaggi più persuasivi degli spot anche, se non soprattutto, quando il messaggio pubblicitario non ha ad oggetto un prodotto per l’infanzia.
Uno stereotipo talmente abusato che Riccardo Catagnano, della milanese Saatchi & Saatchi, lo rovesciò completamente nella serie degli spot (anch’essi a suo tempo fonte d’infinite polemiche) del Buondì Motta in cui un’antipaticissima e petulante «bambina sorridente» si rendeva protagonista di una vera e propria strage (nella quale era essa stessa vittima) a colpi di «Asteroidi Buondì» sino a determinare l’estinzione del genere umano.
Un frutto tradizionale e di stagione
Il cortometraggio si segnala anche per una particolare attenzione per la stagionalità e la tradizione ed anche questi due elementi non sono palesi, ma in qualche modo nascosti nella trama.
Quanto alla stagionalità è da sottolineare che lo spot è stato diffuso alla metà di settembre quando le pesche sono ancora in piena stagione mentre per la tradizione è sufficiente ricordare che la pesca (originaria della Cina, ma arrivata da noi tramite la Persia da cui «persica» e poi «pesca») era coltivata già in epoca romana visto che ne tratta anche Plinio il Vecchio nella sua «Naturalis Historia».
Stagionalità e tradizione che si esprimono anche in una gustosa ricetta di Apicio, la «Patina de persicis» in cui le pesche venivano stufate in olio extravergine d’oliva e poi aromatizzate con il cumino.
Nel cortometraggio non si fa il minimo accenno al prezzo della pesca e non solo perché essa è destinata ad essere regalata (ma questo la mamma che paga non lo sa) ma per uscire dai canoni pubblicitari della Grande distribuzione che puntano in massima parte sulla convenienza.
La stagionalità, la tradizione, il frutto sfuso scelto dalla bambina con attenzione, veicolano un messaggio che richiama gli acquisti sui banchi del mercato, che sa di autenticità e che, come già stanno facendo i corner di eccellenze, determina da un lato una pesante invasione di campo della Grande distribuzione nel mercato dei piccoli produttori agroalimentari, dall’altro controbatte alla principale accusa che si rivolge alla Grande distribuzione di essere portatrice di prodotti esotici e fuori stagione.
Un bluff che ci vorrebbe poco per smontare visto che nello spot mancano gli elementi classici dell’acquisto consapevole: la provenienza, la varietà, le caratteristiche intrinseche della frutta autentica.
Tutti elementi che il consumatore è portato ad ignorare, come del resto hanno fatto anche i più critici verso lo spot, perché il cortometraggio, nella narrazione e nello slogan finale, punta tutto sui sentimenti.
Cibo e sentimenti: un binomio pubblicitario indissolubile
Per comprendere come il cibo della pubblicità si leghi indissolubilmente ai sentimenti si può fare riferimento ai due brevi saggi di Cristina Calidoni («Il cibo e la pubblicità italiana negli anni ’70 e ’80») e di Elena Baselice («Come è cambiato il cibo nella pubblicità?»).
Sorprende semmai, ma non più di tanto, che nella pubblicità il cibo assai raramente abbia una funzione satisfattiva della fame.
Nella campagna della serie «Dove c’è Barilla c’è casa», creata da Young & Rubicam, vi sono talvolta degli accenni all’appetito (come nello spot in cui il marito torna stanco da un lungo viaggio, trova la moglie intenta ad intrattenere gli ospiti ed addenta di nascosto dagli altri una confezione di spaghetti per far capire che ha fame) ma mediamente, dallo spot del gattino bagnato sino a quello del fusillo nascosto nella cartella del papà in viaggio, quello a cui si punta è alla commozione, alla nostalgia di casa.
Che la fame non sia il motore del cibo pubblicitario lo attesta un’altra famosa campagna, quella della nobildonna in giallo e dell’autista Ambrogio (Ferrero Rocher) in cui la plebea fame viene sostituita da una più aristocratica voglia di qualcosa di buono.
In altri casi, dallo scatolame ai surgelati passando per il pesto, il messaggio è quello della liberazione dall’incombenza del cucinare a tutto vantaggio del tempo libero, ma senza rinunciare ai risultati di una preparazione casalinga.
Messaggi dalla grande capacità di penetrazione come nel caso del «come lo fai tu ma più in grande!» del Gran Ragù Star, o del «Metodo Capuozzo» della pizza surgelata Buitoni.
Il cibo industriale, grazie ai media, non solo è rappresentato come altrettanto buono rispetto a quello casalingo o artigianale, ma addirittura è «più buono» perché ovviamente è più sano e più controllato.
In questi casi, come negli altri simili, si punta moltissimo sul senso di colpa e sull’inadeguatezza (non volere o non sapere cucinare) per spingere prodotti che hanno tutti i caratteri esteriori dell’industrialità, ma che, attraverso la meccanica dei sentimenti divengono parte della famiglia e quindi sono resi in qualche modo artigianali direttamente dal consumatore: chi prepara ai suoi ospiti una pizza surgelata non è un pigro che non ha voglia di perdere tempo, è solo uno più furbo degli altri.
Un messaggio pubblicitario che ha continuato a funzionare anche dopo l’avvento della cucina televisiva che, apparentemente, avrebbe dovuto generare un’inversione di tendenza vista la centralità della figura del cuoco anzi, dello Chef.
Chi meglio della triade Cracco, Bastianich, Barbieri, i celebrati giudici di MasterChef, poteva impedire che la cucina televisiva generasse l’abbandono dei prodotti industriali?
Eccoli allora rispettivamente protagonisti, con notevoli dosi d’autoironia, di una campagna pubblicitaria sulle patatine (San Carlo), di una sulla sfoglia pronta (Buitoni) e di una sulla robiola (Osella): il cortocircuito comunicativo perfetto per rassicurare i consumatori compulsivi di prodotti industriali.
Benessere, buoni sentimenti, autocompiacimento sono i principali ingredienti di campagne pubblicitarie in cui il cibo, che pure è «il prodotto», compare sempre meno e sempre in modo indiretto.
La pubblicità del cibo incoraggia il modello di famiglia tradizionale?
Se la pubblicità del cibo, o dei prodotti, come gli elettrodomestici che fanno indiretto riferimento al cibo, hanno in qualche modo incoraggiato il modello di famiglia tradizionale è un fenomeno che si è consumato soprattutto negli Stati Uniti e, in Italia, nei primissimi anni del Carosello, come quello del doppio brodo Star.
Uno stereotipo che si è riprodotto in seguito con la «famiglia del Mulino Bianco» (dalla linea di prodotti Barilla) anche se, a ben guardare, quella campagna (divenuta ben presto sinonimo di famiglia fintamente felice) più che alla famiglia in quanto tale puntava al rito della colazione (che si ritroverà anni dopo nelle Gocciole Pavesi) a dispetto di una vita sempre più frenetica che ha eliminato di fatto il primo pasto della giornata.
Se la vita moderna è diventata una giungla niente di meglio che far rivivere direttamente la prima colazione con i prodotti da forno da Jane e Tarzan in persona: questo devono aver pensato all’agenzia Nadler Larrimer & Martinelli autrice della prima versione dello spot.
È vero, invece, che nella pubblicità del cibo, e nella pubblicità in generale, gli spot hanno seguito, o in alcuni casi, anticipato l’evoluzione sociale e questo per il semplice motivo per cui una pubblicità discriminatoria limita il taget di prodotti di massa che invece devono essere comprati indistintamente da tutti, indipendentemente dai loro orientamenti e dai loro stili di vita.
L’individualismo come elemento centrale dei messaggi pubblicitari
Il centro della pubblicità contemporanea è l’individuo perché è l’individuo che decide come, dove e cosa acquistare.
Un processo iniziato già negli anni ’70 con lo slogan della Vespa «Chi Vespa mangia le mele» (con chiaro riferimento alla mela tentatrice) creato da Gilberto Filippetti, dell’agenzia pubblicitaria «Leader» di Firenze.
Il cortometraggio di Esselunga, da questo punto di vista, non solo non fa eccezione, ma se è possibile esaspera gli elementi individualisti.
Emma, la bambina protagonista dello spot, non esita per un istante a lasciare la rassicurante mano della mamma per mettere in atto il «suo» progetto e per farsi acquistare la pesca punta tutto sul senso di colpa della mamma che l’ha persa di vista.
Mente alla mamma (facendole intendere che desidera la pesca per sé) e più ancora al papà (al quale racconta la balla del dono) ed utilizza entrambi, i loro sentimenti, i loro sensi di colpa e d’inadeguatezza per il ruolo di genitori separati, per ottenere il suo scopo.
Con i suoi occhioni dolci l’intorta entrambi alla faccia della famiglia tradizionale e dei bambini felici sotto il tetto della casa familiare.
Emma è una consumatrice che sa cosa vuole e lo ottiene ed il tutto è confermato dallo slogan finale («Non c’è spesa che non sia importante») perché è Emma il vero target, quella che va fatta crescere con i prodotti venduti da Esselunga.
Una sorta di riedizione in chiave pubblicitaria della canzone di Renato Rascel «Sì, buonasera» col suo ritornello: «Noi siamo piccoli, ma cresceremo e allora, virgola, ce la vedremo! Chiusa parentesi, riporto sei, noi siamo piccoli, ma dateci del lei!».
Se c’è qualcosa di preoccupante nel cortometraggio della Esselunga allora non è nella scelta del modello di famiglia di riferimento, ma nell’aver capito che i bambini hanno una capacità persuasiva incontenibile per una serie indefinita e potenzialmente infinita di prodotti.
Oggi è solo una pesca, domani decideranno tutto il budget.
Scrivi