La notte, il tepore, una fabbrica vuota, un mestiere che presenta lunghi tempi di attesa. Sono gli ingredienti ideali perché si verifichi quella condizione in cui sonnolenza e necessità di restare vigili portano l’individuo a sdoppiarsi. È ciò che accade in una normale nottata in fabbrica a Lanza, protagonista di Zolfo, racconto di Primo Levi che fa parte della raccolta Il sistema periodico (1975). Lanza, abile operaio che si occupa del funzionamento della caldaia, si trova diviso tra il dovere di monitorare la temperatura della macchina e la «danza di pensieri e di immagini che prelude al sonno». Da una parte il rigore della chimica e della matematica. Dall’altra la vaghezza e la memoria involontaria che costituiscono temi tanto cari alla letteratura.
Memoria e azione
«Faceva caldo, e Lanza vedeva il suo paese: la moglie, il figlio, il suo campo, l’osteria. Il fiato caldo dell’osteria, il fiato pesante della stalla. Nella stalla filtrava acqua ad ogni temporale, acqua che veniva di sopra, dal fienile: forse da una crepa sul muro…». Inizialmente i pensieri di Lanza mantengono una parvenza di lucidità: gli elementi sono ben definiti ed è ancora possibile fare congetture seguendo la logica. Poi il sonno appesantisce la mente e tutto si offusca «in una nebbia di cifre e di calcoli abbozzati e non conclusi». Ma quando sembra che Lanza sia sul punto di scollarsi del tutto dalla realtà, ecco che la caldaia arriva a 180◦.
Prontamente l’operaio si attiva: spegne il fuoco, sbullona il boccaporto e butta dentro il B 41, che in realtà non è altro che lo zolfo, l’elemento chimico che dà il nome al racconto. Lanza sa esattamente cosa fare e quando agire. Ha la precisione del chimico e una passione che è tutta letteraria. Quando a causa di un malfunzionamento la pompa inizia a macinare il vuoto e l’ago del vuotometro comincia a «pendere sulla destra», Lanza diventa come la caldaia che sta andando in pressione. Più lei si arroventa più lui entra in collera, e quando finalmente la collera sbollisce e la testa dell’operaio riprende a ragionare, anche l’ago della caldaia ritorna a salire, proprio come «una pecora smarrita che ritorni all’ovile».
L’operaio e lo scrittore
È a questo punto che la dimensione tecnico-scientifica e quella letteraria del racconto convergono. Riportando la macchina al suo corretto funzionamento, Lanza compie la stessa operazione che compie lo scrittore. Usa l’intelligenza per riportare l’ordine laddove dominava il caos. In questa ottica, l’episodio può essere visto anche come una vera e propria dichiarazione di poetica da parte di Primo Levi. Il lavoro ben fatto dell’operaio si accosta per analogia alla chiarezza della scrittura, strumento privilegiato per ridare una forma alla realtà.
Un lavoro vitale dato che il reale che tende a essere così disarmonico. Crudele come la caldaia che impazzisce, come il destino che condanna Lanza a «fare di notte giorno», come l’inferno che ha l’odore di zolfo. Terribile come la vita del Lager che Levi ha sperimentato sulla sua pelle e che — come narra in Se questo è un uomo — l’avrebbe ridotto a un essere bestiale se il ricordo del celebre verso dantesco «Fatti non foste a viver come bruti,/ma per seguir virtute e conoscenza» non l’avesse spinto a preservare la sua umanità. La salvezza dunque risiede nell’intelletto, peculiarità umana che impedisce a una caldaia di esplodere così come a un individuo di dimenticarsi di se stesso.
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