Qualche spunto di riflessione sul Jobs Act

Jobs-actIl jobs act prende forma. E’ già stata licenziata buona parte dei decreti attuativi e il tam tam mediatico ha cominciato ad azzardare previsioni ottimistiche sulla dinamica occupazionale dei trimestri a venire. Ma qualche domanda è lecito porsela.

Partiamo dalla filosofia di fondo: la disoccupazione, intorno al 13% e che costituisce uno dei sintomi più preoccupanti e persistenti della crisi, avrebbe per il governo una natura preminentemente strutturale, connessa all’eccessiva rigidità del mercato del lavoro. Riducendo questa rigidità, le aziende sarebbero indotte ad assumere, poiché in grado di aggiustare senza alcun vincolo, se non quello del pagamento di un’indennità adeguata, l’occupazione. A ciò si aggiunge un’incentivazione all’assunzione che passa per la parziale decontribuzione dei nuovi contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti.

La dinamica dell’economia reale racconta una storia diversa, soprattutto attraverso i dati sulla produzione industriale di gennaio che hanno segnato ancora il passo. Chiunque fosse dotato di un minimo di buon senso si chiederebbe: per quale ragione un’azienda che vede calare la propria quota di mercato dovrebbe assumere, anche a fronte di un incentivo? La domanda è lecita, ma a sua volta rimanda a una diversa questione: per quale ragione la produzione langue?

Già nel periodo in cui la riforma del mercato del lavoro era oggetto di un ampio, e per certi versi aspro, dibattito nel paese, Ugo La Malfa aveva scritto (il 22 settembre scorso in una lettera al Corriere): “sul piano strettamente economico la decisione del governo di procedere in questo momento a un’ulteriore riforma del mercato del lavoro per aumentarne la flessibilità a me sembra un errore. Anzi un errore grave che può compromettere ulteriormente una situazione economica che è già molto seria”.

La Malfa argomenta subito dopo questo incipit perentorio. Per farlo, cita Draghi, il quale, in un convegno, aveva posto in risalto come la componente più rilevante della disoccupazione fosse di tipo congiunturale, ovverosia legata al ciclo economico: senza adeguati interventi di sostegno della domanda aggregata, e il riferimento è in particolare alla componente di consumo interno, essa rischia di cronicizzarsi. In particolare, La Malfa fa notare come “il primo effetto della maggiore flessibilita sarebbe un ulteriore aumento della disocccupazione e un ulteriore avvitamento dell’Italia nella crisi”. In questa prospettiva, egli invita il governo a “concentrare la sua attenzione sullo stimolo della domanda e lasciar stare il mercato del lavoro che la crisi di questi anni ha già reso anche troppo flessibile”.

La considerazione della componente congiunturale è un richiamo neanche tanto velato alle vecchie politiche di stampo keynesiano: quando il settore privato è in crisi, lo stato deve fornire un impulso adeguato.

Tuttavia, va qui rilevato come produzione, domanda aggregata e reddito distribuito siano facce di uno stesso fenomeno, del quale diventa difficile individuare una precisa sequenza causale. Una politica di stimolo ha senso se incrementa la capacità di spesa e, di conseguenza, i consumi. Se il sistema produttivo è compromesso e soffre di consistenti problemi strutturali, rischia di perdere efficacia. Di conseguenza, il sistema economico deve essere attentamente valutato anche dal lato dell’offerta.

Il monumentale studio di Mediobanca sui bilanci aziendali diffuso lo scorso agosto, e passato quasi inosservato, mette in luce una realtà non certo brillante con riguardo struttura produttiva del nostro paese. In primo luogo, si evince come gli investimenti languano da quasi un decennio. In secondo luogo, si individuano alcune dinamiche di fondo che, dall’insorgere della crisi, hanno letteralmente sfiancato il sistema delle imprese.

L’Italia, più di altri paesi in Europa, ha subito, già prima del 2008, i pesanti effetti della riallocazione su scala globale del ciclo produttivo: le fasi hard si sono spostate nei paesi a minor costo del fattore lavoro, le eccellenze in alcuni settori sono evaporate (Olivetti, un nome su tutti), i distretti più forti hanno segnato fortemente il passo, il peso della ricerca di base ed applicata in rapporto al pil è significativamente più basso rispetto agli altri paesi, il portafoglio prodotti maturo e soggetto agli attacchi insostenibili dei paesi emergenti. Nonostante sia, di quella che potremmo chiamare politica industriale, rifuggendo tuttavia il modello inefficace che ne ha caratterizzato il corso negli scorsi decenni, nemmeno l’ombra, se non un velato richiamo a maggior concorrenza per parrucchieri e farmacisti.

Lasciamo al lettore, per concludere, una domanda su cui riflettere. Per quale ragione il governo sul sostegno della domanda e sulla “riattivazione” della struttura industriale non ha messo quella veemenza che ha mostrato invece con rispetto al mercato del lavoro? Forse perché si è arreso e ha deciso di sacrificare la domanda interna per un’economia fondata sulle esportazioni in settori fortemente maturi?

Se così fosse, per fare ciò, l’unica via sarebbe una pesante svalutazione salariale e una consistente riduzione dei diritti dei lavoratori. I segnali sono tanti, molti indizi fanno una prova. E siamo solo all’inizio.

di Joe Di Baggio

2 Risposte

  1. Angela

    Joe e “svalutando” i salari il Paese non va in “depressione”? Nel senso chi avrebbe più soldi da spendere? O mi sfugge qualcosa… Ridurre i diritti dei lavoratori, in che senso? Tornare a lavorare nelle fabbriche con turni di 48 ore, senza nessuna tutela su “malattia” e “pensioni”?

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    • Joe

      Certo che l’economia rischia di avvitarsi su sé stessa: è quanto dice, e non solo, La Malfa. Probabilmente ci siamo arresi al ritorno all’ottocento.

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