Al momento di predisporre il programma del suo governo, Matteo Renzi ha proclamato: “la lotta alla burocrazia è la madre di tutte le battaglie”.
Ha poi definito la strategia di questa “sua battaglia”, nelle seguenti linee: tetto agli stipendi, distinzione tra politica e amministrazione, professionalizzazione della dirigenza, accorciamento della catena di comando, scelta dei funzionari mediante concorso e mobilità. Tutte cose già in atto da anni.
Per quanto riguarda gli stipendi dei dipendenti pubblici, i contratti sono bloccati da prima dell’inizio della crisi: quindi, il “tetto” è di fatto già in essere; le qualifiche funzionali e le fasce retributive sono ridotte a ogni rinnovo contrattuale, da almeno un trentennio, e ciò ha prodotto un progressivo accorciamento della catena di comando; la riforma Cassese del 1993 (poi ci ritorneremo) ha già introdotto la distinzione tra politica e amministrazione e la professionalizzazione della dirigenza; infine, il reclutamento dei pubblici funzionari mediante concorso è previsto addirittura dalla Costituzione del 1948.
In realtà, tutti i mali della Pubblica Amministrazione del nostro paese derivano da un unico peccato originale: il principio-base secondo cui, mentre il privato può fare tutto ciò che non è proibito dalla legge, la PA può fare solo ciò che la legge prescrive. Per questo la produzione normativa dell’ordinamento italiano è di gran lunga la più alta del mondo occidentale, perché in mancanza della norma, la PA è impotente ad agire. Nonostante ciò, è evidente che la legge non può prescrivere tutto nel dettaglio e riuscire a normare tutti gli aspetti dell’amministrazione pubblica. Inoltre la lievitazione delle norme ha prodotto la frequente contraddizione delle stesse, con conseguenti difficoltà di interpretazione e di applicazione. E’ questo il motivo della farraginosità della burocrazia e della sua proverbiale inerzia.
La regionalizzazione e il decentramento delle funzioni in periferia ha comportato una ulteriore sovraproduzione normativa e la polverizzazione dei centri decisionali, cioè dei centri “indecisionali”.
Inoltre lo tsunami della prima tangentopoli (1992-1993) ha prodotto la “riforma Cassese”, di cui abbiamo fatto cenno. Da allora, la responsabilità per gli atti emessi dalla Pubblica Amministrazione è tutta del funzionario e non del politico. Da ciò deriva la diffusa sensazione di impotenza della politica in generale, e del Presidente del Consiglio, in particolare, che sente di non essere in grado di controllare la PA. Non si può, però, avere la botte piena e la moglie ubriaca: il controllo comporta responsabilità e viceversa, visto che chi sbaglia paga (e i politici, per tale motivo, pagano solo in caso di corruzione o di associazione a delinquere conclamate). Se poi andiamo a guardare, l’arma del conferimento degli incarichi e quello della mobilità dei funzionari è uno strumento di controllo molto efficace in mano ai politici, pur rimanendo “irresponsabili”.
La burocrazia italiana, di fronte a ciò, si è difesa con il “non fare”, piuttosto che eseguire direttive di difficile applicazione, secondo la legge. Di qui, atteggiamenti spesso denigratori (la campagna verso i “fannulloni” delle testate legate alla politica) o diffidenti, che di sicuro non creano un buon clima tra politica e amministrazione.
Come diceva Giolitti: la legge con gli amici si interpreta, con i nemici si applica. Se fosse vivo oggi, direbbe: con i politici è meglio non applicarla.
di Federico Bardanzellu
fonte foto:letteradonna.it
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