La figura di questo sovrano, l’ultimo dei Plantageneti, è avvolta da un alone di mistero. La storia restituisce un’immagine di perfidia; Shakespeare lo dipinge come un mostro. Cosa c’è di vero nella storia degli assassinii che avrebbe commissionato?
La Guerra delle Due Rose
Inghilterra, 1377. Edoardo III muore e lascia sei figli maschi, quattro dei quali in una invidiabile posizione economica e sociale. Inevitabilmente nascono lotte per ereditare la corona.
Il primogenito, Edoardo di Woodstock, detto il Principe Nero, muore un anno prima del padre. Il trono, dunque, passa a suo figlio Riccardo II e, se questi avesse avuto eredi maschi, la storia dell’Inghilterra, forse, avrebbe avuto una piega differente. Così non è.
Sul finire del suo regno, Riccardo designa come proprio successore il biscugino Ruggero Mortimer e, morto costui troppo presto, il figlio di quest’ultimo, Edmondo, quarto conte di March. Ma le cose vanno diversamente, poiché, nel 1399, incattivito dalla sottrazione di terre ed averi subìta dal re, Enrico, cugino di primo grado del Principe Nero e primo duca di Lancaster, obtorto collo, convince Riccardo II ad abdicare in suo favore. E’ l’inizio della genìa dei Lancaster: Enrico IV, suo figlio Enrico V, suo nipote Enrico VI.
Nel frattempo infuriano aspre battaglie tra i due rami della famiglia; la rosa bianca degli York e la rossa dei Lancaster, contenute nei loro stemmi, sventolano su vessilli insanguinati. Sono tutti parenti, hanno tutti lo stesso sangue, cosa che rende questa furiosa, lunga lotta dinastica ancora più inaccettabile.
Enrico VI è un re fisicamente debole. Ed è proprio una sua lunga malattia a segnare l’inizio della sua fine. Si fa sempre più pressante Riccardo di York, nipote di Ruggero Mortimer, il quale, inizialmente, si fa nominare Protettore del Regno, un’anticamera della corona, ma la ripresa di Enrico VI e la nascita del suo legittimo erede, Edoardo di Lancaster, mutano le cose. Riccardo di York, tra alti e bassi conserva la carica di Protettore del Regno, ma, la lotta per la corona si fa sempre più aspra. Enrico VI viene imprigionato, la regina Margherita, sua moglie, prosegue la battaglia alleandosi con gli scozzesi e Riccardo di York perde la vita a Wakefield nel 1460. E’ il primogenito di Riccardo, Edoardo, a prendere le redini della lotta dinastica, insediandosi sul trono l’anno seguente, dopo aver dichiarato decaduto Enrico VI.
Edoardo IV di York, dunque, è il nuovo re, ma il suo non è un regno felice. Forse, il destino diventa nemico in mezzo a tanto sangue. Anche dopo la sua investitura prosegue la lotta contro i Lancaster.
Il culmine delle battaglie vede teatro in Tewkesbury il 4 maggio 1471. La disfatta dei Lancaster è completa. Pochi giorni dopo, Enrico VI viene trovato morto nella Torre di Londra, ove, in quegli anni turbolenti, dopo essere stato liberato, aveva nuovamente trovato dimora; suo figlio Edoardo, invece, muore in battaglia e Margherita trova rifugio in Francia. Di fronte alla disfatta, Jasper Tudor, fratellastro di Enrico VI, fugge in Bretagna portando con sé il figlio, Enrico Tudor, per timore di una rappresaglia nei loro confronti. Lì, ospiti del conte di Bretagna, Jasper e suo figlio restano per 14 anni.
Nel 1478, Edoardo IV fa imprigionare il fratello, Giorgio di Clarence, il quale aveva tradito la causa familiare per allearsi con i Lancaster. Qualche giorno dopo, come accaduto ad Enrico VI, la Torre restituisce il suo cadavere. Luogo malsano.
Oscure manovre
E’ sempre molto sconfortante fronteggiare il fatto che la storia si basa su testimonianze di parte, a volte non veritiere. Riccardo di Gloucester, fratello di re Edoardo IV e di Giorgio di Clarence, forse in ottemperanza alle regole della kalokagathia, ossia della bellezza che si accompagna alla bontà (kalos kai agathos, dicono i greci, bello e buono), viene descritto deforme, con una gibbosità invalidante, un braccio più corto dell’altro ed una mano mutila di tre dita. I quadri, al contrario, riportano di lui un’immagine assolutamente normale ed un bel volto pensoso e malinconico; altrettanto dicasi per le memorie dei contemporanei, come la contessa di Desmond, la quale, rievocando in vecchiaia le danze a Corte, descrive il conte di Gloucester come il più affascinante dopo il re. E’ ben possibile, dunque, che le malefatte che gli vengono attribuite abbiano, col tempo, portato al perpetuarsi di un’immagine fisica brutta e deforme, in linea con la perfidia. Shakespeare sposa in pieno questa distorta versione dei fatti, ma è vero anche che Riccardo III era uno York e che il Bardo scriveva sotto l’ala protettrice di Elisabetta I, una Tudor, ossia una Lancaster, in linea dinastica. “Io che sono [..] frustrato di sembianza dalla Natura che sì mi dispaia, deforme, incompiuto, anzi tempo inviato in questo spirante mondo, appena plasmato a mezzo, e pur questo in modo così monco e contraffatto che i cani latrano di me quand’io zoppico accanto a loro” scrive Shakespeare nel Riccardo III, abbinando, per stessa ammissione di Riccardo, la crudeltà alla sua bruttezza: “E così, dacché io non posso far l’innamorato per intrattenere questi bei giorni soaveloquenti, son risoluto a mostrarmi uno scellerato, ed a colpir col mio odio i frivoli piaceri di questi giorni”.
I parenti di Elisabetta Woodville, moglie di Edoardo IV, sono molto invadenti e di bassa levatura sociale ed intellettiva. Riccardo mal li tollera e sono sempre maggiori le occasioni in cui si assenta da Corte. Per un lungo periodo si trasferisce al nord, portando avanti battaglie contro gli scozzesi nella striscia di confine tra i due Paesi. E’ un bravissimo generale. Pur non amando l’entourage della regina, resta comunque fedele alla corona. Nel suo stemma si legge Loyaulté me lie. E’ francese di corte: “Lealtà mi lega”. Un simile motto mal si concilia con l’accusa di aver ucciso i nipoti o di aver spinto il re a far uccidere il loro fratello Giorgio di Clarence. In realtà, è vero il contrario: Riccardo si era adoperato fino all’ultimo affinché i suoi fratelli si riappacificassero.
Il 9 aprile 1483 Edoardo IV muore. La storia non ci insegna con precisione le cause della morte, ma sappiamo che lascia testamento. Era, dunque, in qualche modo pronto all’evento. La sua volontà è chiara. Il trono va al primogenito maschio, Edoardo, ma la reggenza, quale Protettore del Regno, va a suo fratello Riccardo di Gloucester.
La morte di re Edoardo coglie Gloucester ancora militarmente impegnato nelle terre del nord e gli desta un grande turbamento. Nonostante l’infuriare della battaglia, fa celebrare una messa a suffragio e convoca i nobili locali affinché, davanti a lui, giurino fedeltà al nipote, il nuovo sovrano Edoardo V. Poco dopo si mette in viaggio per Londra, scortato dal suo esercito vestito a lutto.
Sa di doversi sbrigare: è sicuro che la regina ed il suo seguito di parenti opportunisti non accetteranno di buon grado la sua reggenza. Così è. Il giovane re è già manovrato dallo zio, il conte di Rivers e dal figlio di primo letto della regina, lord Grey, i quali iniziano sin da subito a firmare ordini e norme come avunculus regis e frater regis uterinus.
Strada facendo, Riccardo unisce le proprie forze a quelle del duca di Buckingham, il quale nutre odio profondo per i Woodville. Con lui raggiunge Stony Stratford, dove si trova il nipote, e lì si inginocchia prestando la propria fedeltà alla corona. Al contempo fa arrestare il parentame della regina. Senza più nessuno che furbescamente devii i poteri del re verso interessi personali, Edoardo V fa ingresso a Londra scortato dall’esercito dello zio.
E’ il 4 maggio1483.
L’ingresso trionfale vede la popolazione in festa. Il nuovo re, come d’uso prima dell’incoronazione, si reca agli alloggi della Torre di Londra. Riccardo fissa la data per l’incoronazione al 22 giugno. Manca più di un mese, periodo che il principe, raggiunto poco dopo dal fratello minore, dovrà restare nella Torre di Londra. La regina, vista la mal parata, si rifugia nell’abbazia di Westminster insieme agli altri suoi figli.
Mancano pochi giorni all’incoronazione quando una notizia esplode nel palazzo reale e cambia radicalmente la linea dinastica. Robert Stillington, vescovo di Bath, annuncia che il matrimonio tra Edoardo IV ed Elisabetta Woodville non è valido. Edoardo, infatti, al momento delle nozze era unito ad Eleonora Butler con un legame prematrimoniale assolutamente vincolante. Eleonora non può dire la sua, perché, nel frattempo, deceduta in convento. Stando così le cose, il matrimonio reale è nullo; stesso dicasi per la successione del principe Edoardo V.
Due sono le cose: o davvero il vescovo Stillington ha trovato solo in quel momento le prove dell’invalidità delle nozze reali, oppure è stato sollecitato a farlo. In entrambi i casi, in un momento come quello, di costanti lotte dinastiche con i Lancaster, una simile notizia rischia di regalare il regno alla fazione avversaria. Inevitabilmente Riccardo deve proporsi come regnante al posto dei nipoti, in modo che la corona resti agli York.
Il Parlamento decreta la decadenza dei figli di Edoardo IV senza battere ciglio. Probabilmente il timore dell’acuirsi di lotte intestine era un deterrente ad ulteriori indagini. Inoltre Riccardo di Gloucester si era rivelato un ottimo condottiero, fedele alla causa inglese. Ed è quanto basta.
Il 26 giugno, pertanto, quattro giorni dopo la data fissata per l’incoronazione di Edoardo V, viene fatto re Riccardo III. Sul suo regno, però, grava un’ombra fitta ed oscura. Domenico Mancini, cronista italiano a Londra, afferma che i due principini spodestati, figli di re Edoardo IV, non giocano più nei giardini della Torre come erano soliti fare fino a qualche tempo prima. Si vocifera che, per ragioni di sicurezza, siano stati trasferiti nei recinti interni. A confermare il fatto che siano ancora vivi c’è il dott. Argentine, medico curante della Real Casa, il quale afferma che Edoardo si confessa ogni giorno.
Da quel momento, però, nessuno ne parla più, né è noto dove siano.
La tradizione vuole che ad agosto Riccardo li abbia fatti uccidere o li abbia murati vivi. Lo riferisce Tommaso Moro, attingendo, come fonte, agli scritti di tal Morton, un vescovo acerrimo nemico di Riccardo. Secondo il racconto di Moro il re si trovava nelle Contee meridionali, quando, colto da improvviso timore che i nipoti potessero, crescendo, rivendicare il trono, avrebbe mandato a Londra un sicario, tal James Tyrrel, con una missiva per il connestabile della Torre, nella quale si autorizzava lo stesso a dare le chiavi a Tyrrel affinché questi potesse portare a termine gli ordini del re. Tyrrel avrebbe portato seco due sgherri per uccidere i bambini, seppellendoli sotto la scala della Torre.
Sul mandante dell’omicidio restano dubbi, però. C’è da chiedersi perché, ad esempio, Riccardo III avrebbe avuto questa folgorazione improvvisa ed avrebbe preso questa decisione, se i due ragazzi erano stati già esclusi dalla linea dinastica. Di cosa aveva paura? Per la lealtà sempre dimostrata a suo fratello Edoardo IV, inoltre, è poco credibile che abbia compiuto questo delitto atroce. Più facile che sia stato commesso da suoi nemici, intenzionati a screditarlo come re.
Del resto, anche l’essersi cinto della corona al posto di Edoardo V, non è affatto indicativo di una smodata bramosia di potere, quanto, piuttosto, di un fondato timore che l’illegittimità del principe ereditario potesse portare al potere un uomo della fazione opposta. La cosa andava scongiurata immediatamente, prendendo il potere con fermezza.
A sostegno dell’innocenza di Riccardo III c’è anche un altro elemento non di poco conto: Elisabetta Woodville viene riammessa a Corte con le sue figlie, cui viene dato ogni onore. Anche il suo figlio di primo letto, macchiatosi della colpa di approfittarsi del piccolo Edoardo V, torna dall’esilio in Francia, perdonato da Riccardo III. Se veramente Riccardo avesse ucciso i principini, la cosa avrebbe avuto la notorietà tale che la madre dei bimbi uccisi non avrebbe certo accettato l’ospitalità del loro assassino.
Il regno di Riccardo III non è lungo, appena due anni, ma sono due anni di una prosperità che da tempo l’Inghilterra non vede. Riesce a risistemare la situazione economica senza gravare sui cittadini e riforma il settore amministrativo, migliorando il rendimento dell’apparato. Inoltre, investe molto nella cultura, istituendo la prima tipografia inglese, quella di Caxton, e finanziando università e chiese; protegge ad oltranza il popolo da qualunque sopruso, quand’anche attuato da nobili vicini alla Corte, tanto che deve fronteggiare non poche ribellioni di questi ultimi, sempre sedate a favore del popolo e della Corona.
Ovviamente, questo atteggiamento intransigente nei confronti di alcuni nobili, fa sì che questi si alleino con la mai sopita ribellione dei Lancaster, a capo della quale è quell’Enrico Tudor fuggito in Francia alla caduta di Enrico VI. Il Tudor torna in Inghilterra dal suo rifugio bretone nell’ottobre 1483. E’ un primo tentativo di dare battaglia al re. Viene fermato, ma ha ormai riacceso la fiamma dei Lancaster.
Nel frattempo, Riccardo deve affrontare prove molto difficili nella sua vita privata. Nel 1484 è costretto a piangere la morte del suo unico figlio, Edoardo; poco dopo muore anche la sua sposa e cugina Anna Neville.
Nell’estate 1485, Enrico Tudor tenta ancora una sortita dalla Francia: sbarca a Milford Haven con, al seguito, più di 5.000 uomini, unendosi, strada facendo, ai nobili rivoltosi con i loro eserciti. Riccardo III è costretto alla battaglia. E’ il 21 agosto1485. Il re si dirige a Market Bosworth alla testa di 7.000 uomini. Prima di essere re era un soldato, un valente generale, ed avrebbe combattuto personalmente, con coraggio. Si aspetta l’appoggio di Stanley, il quale, però, facendo il doppio gioco, ha già concesso il suo appoggio ad Enrico Tudor. Il 22 mattina, Riccardo III sospetta di Stanley e lo manda a chiamare, prendendo preventivamente in ostaggio uno dei suoi figli, lord Strange, in modo da assicurarsi la sua fedeltà. Tutto inutile. Stanley risponde al re in modo vago, sul suo intervento; quanto all’ostaggio conclude affermando d’avere altri figli. Semplicemente disumano.
La battaglia infuria a mezzodì. Riccardo capisce presto che non solo Stanley l’ha tradito. La nobiltà che egli aveva combattuto in favore del popolo gli si rivolta contro, ripagandolo con la sua moneta di disonestà: mai comandare con polso e senso di giustizia su persone avide e grette! Molti sono i soldati, soprattutto nelle retrovie, che non combattono con convinzione e che si allontanano dal campo. A causa dei tradimenti, è spacciato.
Shakespeare lo descrive terrorizzato dai fantasmi, dalle maledizioni della regina Margherita e della duchessa di York, e voglioso di fuga: “Il mio regno per un cavallo”. La realtà è ben diversa. A detta dei pochi sopravvissuti tra i suoi alleati, egli avrebbe fatto l’esatto contrario: non avrebbe indietreggiato, non sarebbe fuggito; avrebbe combattuto fino alla fine, da degno re d’Inghilterra.
La battaglia infuria. Riccardo si dirige verso il portabandiera dei Tudor e lo uccide, ma viene ben presto circondato e perisce, battendosi con la stessa forza e la stessa tenacia del cinghiale che reca sul suo stemma. La sua corona, un semplice cerchio d’oro, rotola in terra, insanguinata. Lord Stanley la raccoglie e la pone sulla testa del figliastro, Enrico Tudor, il quale, da allora, avrebbe regnato col nome di Enrico VII e, sposando Elisabetta di York, ossia l’ultima esponente della casata avversa, avrebbe anche posto fine alla Guerra delle Due Rose, dando inizio alla lunga e prospera dinastia dei Tudor.
Enrico entra a Londra da re, ma indossa pur sempre una corona insanguinata ed il popolo, tenuto conto dei favori ricevuti da Riccardo III, non apprezza punto.
Enrico VII, dunque, deve trovare in fretta una valida giustificazione a quella battaglia ed a quella morte. È così che nasce il mito della crudeltà di Riccardo III. Non viene tirato in ballo l’omicidio dei principi. E’ già stato commesso? Per quanto ne sappiamo, potrebbero ancora essere a Corte. Riccardo III, infatti, non aveva motivo di ucciderli; Enrico Tudor, invece, sì. Per sposare Elisabetta di York, sorella dei due bambini, aveva bisogno che fosse revocata la dichiarata illegittimità. Ordina, dunque, la distruzione di tutti i documenti in cui se ne fa menzione. Revocata l’illegittimità di quella famiglia, però, si restaura la linea dinastica York ed il legittimo erede al trono sarebbe proprio il piccolo Edoardo V e non Enrico Tudor. Sicuramente Enrico ha più interesse di quanto non avesse Riccardo a far uccidere, nell’ombra tipica delle congiure, i due bambini.
Alla sparizione dei principini si legano altre misteriose scomparse: Elisabetta Woodville, madre dei ragazzi, che al tempo di Riccardo godeva di prestigio a Corte, viene fatta sparire, finendo i suoi giorni in un convento; il vescovo Stillington, che per primo aveva sollevato il problema dell’illegittimità, viene imprigionato e finirà i suoi giorni in carcere; e James Tyrrel, il sicario che si dice abbia ucciso i bambini per conto di Riccardo e che, invece, risulta essere molto legato ad Enrico VII, viene arrestato a Calais, condannato e giustiziato per crimini comuni, forse nel timore che riveli il nome del vero mandante dell’efferato omicidio dei due bambini, ossia di Enrico VII. Solo dopo la morte di Tyrrel, infatti, non potendo egli più negare, si sparge la notizia che abbia ucciso i principini su ordine di Riccardo III.
Dei due principini restano solo ossa; ossa murate nella Torre di Londra. Vengono ritrovate, nel 1674, sotto la scala di pietra, da due operai, durante lavori di manutenzione. Regna, in quell’anno, Carlo II Stuart, il quale predispone ogni cosa affinché i due scheletri siano trasportati a Westminster ed inumati nella tomba reale col nome di Edoardo V e Riccardo di York.
Sui due corpicini viene effettuata un’altra ricognizione nel 1933, definitivamente provando che trattavasi di adolescenti.
Quelle ossa narrano ancora oggi una violenza inaudita, ma nulla dicono del colpevole. Riccardo III è un nome che affiora dalla storia, una storia scritta dai partigiani dei Tudor, compreso il grande Bardo, spiace dirlo. Che sia la verità, qualche dubbio resta. D’altronde, la verità è una dama sfuggente, una fata, una strega, una dea che si nasconde; e muta con il mutare della lingua di chi la racconta.
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