Riformite: una nuova patologia italica

riformeUna riforma consiste nel cambiare, anche radicalmente, una parte dell’ordinamento giuridico al fine di adeguare meglio il funzionamento della società a una serie di mutamenti dell’ambiente storico-sociale. L’idea di massima è dunque quella di adattare le regole giuridiche alla realtà. Partendo da questa definizione minimale e guardando ai recenti avvenimenti concernenti il nostro paese, ci si accorge di un fatto curioso: il paese sembra affetto da una patologia assai diffusa e al contempo grave che potremmo battezzare “riformite”. Una patologia ancora in forma acuta, e che pare cronicizzarsi nel tempo.

L’assunto di fondo che muove i malati di riformite è il desiderio compulsivo di fare “riforme”, senza affatto curarsi se esse possano effettivamente incidere sulle dinamiche economiche, politiche e sociali oppure no. Bisogna cambiare, insomma, e ciò che conta è la volontà di attuare il cambiamento in sé, non certo considerare se le riforme apportino, oppure no, beneficio per la comunità nel suo insieme.

E così, dopo che tutte le ricerche e i pareri autorevoli avevano concluso che la disoccupazione italiana ha radici congiunturali (e quindi legate alla debolezza della domanda a sua volta connessa a problemi di distribuzione del reddito) si è giunti a varare la famigerata riforma del Jobs Act, che ha invece affrontato il problema in termini strutturali. Il risultato è ora certificato dagli enti statistici e dagli studi economici: un certo effetto positivo è durato sino a che sono sopravvissuti gli incentivi, poi la precarietà è tornata imperante. Non senza aver buttato alle ortiche miliardi di preziose risorse pubbliche che regole europee, ma anche il buon senso, suggerirebbero di ben impiegare.

Ora la riformite torna imperante con i ritocchini, anzi ritocconi, della Costituzione, norme che, non essendo passate con maggioranza qualificata, impongono un referendum confermativo come Carta Fondamentale comanda. Irrazionalità e schemi di difesa psicologica risibili ci mostrano però il re nudo.

“Ci vuole rapidità nelle decisioni” ci dicono, obiettivo che con il bicameralismo è impossibile attuare. Eppure, guardando gli studi che circolano, ci si accorge che per numero di provvedimenti licenziati siamo i secondi in Europa, appena dopo la Germania. E vi è di più: sembra che tutti questi reiterati rimbalzi tra le due camere non è che siano poi così frequenti. Documentarsi per credere! Altro cavallo di battaglia, i costi della politica. Qualche decina di milioni di euro su oltre settecento miliardi di spesa corrente. Gli americani, in questo caso, esclamerebbero: “peanuts” (noccioline). Ma non vogliamo certo deludere quelli che dicono: l’importante è il principio! Vero. Ma allora per quale strana ragione, nel momento in cui scriviamo, una proposta di legge tesa a ridurre drasticamente i compensi di tutti i parlamentari si è risolta con una supercazzola ed è stata rimandata la sua discussione (probabilmente sine die)? Strano comportamento. Che questa riformite sia una sindrome che contempla anche la personalità multipla?

E veniamo ora a un altro argomento principe dei malati di riformite: la semplificazione. Bene, se qualcuno si prendesse la briga di leggersi il testo della nuova Costituzione emendata dai riformatori compulsivi, si accorgerebbe che vengono moltiplicati gli iter di approvazione con riguardo ai rapporti tra le due camere e che, in alcuni casi, potrebbero crearsi delle matasse, in termini di competenze e attribuzioni, che solo la Corte Costituzionale potrà dipanare. Sempre per restare al tema dell’efficienza, appare peraltro chiaro che è ben difficile, attraverso un ragionamento razionale, riuscire a spiegare come faccia uno a impadronirsi dello scranno di senatore quando, nel contempo, è stato indicato dall’elettorato per occupare a tempo pieno un posto di governo in un ente territoriale.

Come ben noto agli psicologi e agli psichiatri, patologie e comportamenti borderline sono quasi sempre caratterizzati dal prevalere dell’oscuro mondo dell’inconscio sui processi razionali. Qui il riferimento è ovviamente a chi è chiamato a votare, non certo a chi le riforme le ha proposte con una strategia ben precisa.

Non la spieghiamo la strategia: lasciamola solo intuire, illustrando gli effetti della riforma. Essa, combinata con la legge elettorale, sbilancia fortemente l’equilibrio dei poteri a tutto vantaggio di una minoranza che può essere anche esigua (tutto dipende dalla percentuale di astenuti alle politiche), toglie ancora di più forza al parlamento di trovare una sintesi migliore nel processo di formazione legislativa, depotenzia gli istituti di democrazia diretta e allunga la mano delle oligarchie partitiche vincenti sui poteri di equilibrio istituzionale quali il Presidente della Repubblica e la Corte Costituzionale.

Sul piano pratico, poi, questa blindatura rende probabile il fatto che se vincesse una coalizione di incompetenti, si potrebbero produrre danni inenarrabili per un intero quinquennio. Soprattutto, le grandi riforme varate nell’ultimo anno della legislatura, magari essenziali veramente per il paese, potrebbero essere spazzate via in quella successiva nel giro di poche sedute. Insomma, più irrigidiamo il potere esecutivo e più togliamo “mediazione” e consenso da parte della minoranza e più siamo sottoposti al rischio che si facciano danni e si continui a saltare da una riforma al suo opposto.

Esiste una cura per la riformite? Probabilmente no. Ma con una buona terapia a base di studio profondo delle proposte legislative, magari la pandemia si ridurrebbe e il paese ne beneficerebbe.

di Joe Di Baggio

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