Lo scorso 18 maggio i ministri degli Esteri di undici paesi europei riuniti in videoconferenza hanno discusso un approccio coordinato per il ripristino della libera circolazione nell’Unione. “La libertà di viaggiare attraverso l’Europa è parte fondamentale del progetto europeo” hanno affermato. “Il nostro obiettivo è ripristinare gradualmente la libertà di movimento di tutti i cittadini per motivi professionali, di studio o privati. Ciò comporterà la revoca delle regole di confinamento e di quarantena al rientro dei viaggi transfrontalieri”. I paesi rappresentati erano: Austria, Bulgaria, Cipro, Croazia, Germania, Grecia, Italia, Malta, Portogallo, Slovenia e Spagna. Come e quando i viaggi saranno possibili dipenderà da accordi tra i singoli Stati confinanti “a condizione che le attuali tendenze positive continuino a portare a situazioni epidemiologiche comparabili nei paesi di origine e di destinazione”.
Dopo tre mesi di clausura forzata si ritorna dunque alla normalità. Presto i cittadini potranno riattraversare le frontiere tra gli Stati, mentre negozi, parrucchieri e ristoranti hanno già ripreso le loro attività. Benissimo. Tuttavia i pareri in merito alle riaperture sono molto contrastanti. E non senza ragione. Troppe ancora le incertezze, troppo poche le certezze. Ciò che questi tre mesi di sacrifici hanno messo chiaramente in luce sono i danni collaterali delle restrizioni adottate. In particolare quelli all’economia. Con CoViD-19 sono stati i paesi industrializzati ad essere i più colpiti. La forte interdipendenza dei cicli produttivi su scala internazionale ha reso questa crisi ben più grave di quella finanziaria del 2007/2008. Allora si trattava di economia virtuale, adesso è l’economia reale ad essere in gioco.
Nel giro di pochi mesi il Coronavirus ha cambiato gli assetti mondiali. Cina e America sono nel mezzo di una guerra fredda, più o meno dichiarata. E’ una guerra che si giocherà soprattutto sul piano commerciale e che rimetterà in discussione decenni di allegra, spensierata globalizzazione. Tra i due contendenti il terzo (non) gode. A non godere sarà l’Europa, saremo noi. L’emergenza ha messo in evidenza i limiti di un’Unione europea nata sulla base di meri accordi monetari, basata più sul rispetto delle regole del cosiddetto “patto di stabilità” che su valori di solidarietà e di mutuo soccorso tra le nazioni. La sfida che si porrà – se si porrà – sarà quella di rivedere l’intera impalcatura del progetto europeo e verificare se l’Europa è matura per fare un salto di qualità verso l’unione politica. Sottrarsi a tale sfida potrebbe minare il futuro dell’Unione. I prossimi mesi saranno determinanti. Già nelle prossime settimane dovranno essere prese importanti decisioni sugli aiuti economici da concedere agli Stati. Mai prima di oggi erano state proposte cifre così alte, sia a livello dell’Unione, sia nei singoli Stati. Centinaia di miliardi verranno resi disponibili per risanare le economie nazionali. E non è ancora chiaro se i prestiti andranno a incrementare la voragine del debito pubblico dei singoli Stati penalizzando quelli, come l’Italia, che già ne hanno uno fin troppo alto.
La richiesta italiana di istituire degli Eurobond straordinari è stata ridimensionata da Francia e Germania, ancora una volta prime della classe. Emmanuel Macron e Angela Merkel hanno proposto stanziamenti per 500 miliardi di Euro. Sono tanti soldi ma, a ben vedere, si tratta soltanto 1000 Euro per ciascun cittadino dell’Unione. Il rischio è che non bastino per affrontare una crisi economica che ha colpito in modo pressoché identico tutte le economie dei paesi dell’Unione. Quello di cui l’Europa, e non solo, avrebbe bisogno è ricreare i presupposti per far girare l’economia reale. Affinché ciò avvenga dovremmo disporre già oggi di un vaccino che scongiuri definitivamente il perdurare della pandemia.
Purtroppo al momento non solo non disponiamo di alcun vaccino, ma neanche siamo in grado di dire se le restrizioni attuate durante la Fase 1 siano state efficaci. Una cosa è certa: l’incendio è ancora lungi dall’essere stato domato. Non lo è in Cina, dove è scoccata la prima scintilla e dove, nonostante non ci siano più decessi, nell’ultimo mese si sono registrati nuovi contagi “di ritorno”. Non lo è in Europa, dove il virus è arrivato due mesi dopo e ha fatto più vittime della Cina. Non lo è in America, dove i primi contagi si sono avuti a marzo e dove sono bastate poche settimane per fare degli Stati Uniti il paese più colpito del pianeta. Ormai l’abbiamo capito: il fattore tempo ha giocato un ruolo decisivo. Ed è paradossale che, nonostante l’ampio preavviso, le conseguenze più gravi siano avvenute a grande distanza geografica dal primo focolaio. Gli errori si pagano e a pagare sono stati soprattutto i più deboli. Le decisioni prese dai governi in Europa e in America sono state tardive e poco hanno potuto fare contro la virulenza dell’epidemia. Pochi giorni fa il New York Times ha dichiarato che se le misure di contenimento fossero state adottate soltanto una settimana prima ci sarebbero state 36.000 vittime in meno.
Nel momento in cui scriviamo – oggi è il 22 maggio – nel mondo si sono avuti 5 milioni di contagi e i decessi sono stati circa 330.000. Nessuno tuttavia conosce le cifre precise. Troppe sono le discrepanze dei metodi di rilevamento dei dati, in particolare di quelli relativi ai tamponi eseguiti. Ma la vera incognita è quella rappresentata dal numero degli asintomatici, ovvero delle persone che, benché prive di segni evidenti di infezione, continuano inconsapevolmente a diffonderla. In Germania uno studio effettuato dall’Università di Bonn su un campione di mille cittadini del distretto di Heinsberg, nel Nord Reno-Westfalia, distretto dove il virus ha avuto una diffusione precoce subito dopo i festeggiamenti di carnevale, ha ipotizzato che gli infetti da Coronavirus sarebbero 1,8 milioni di persone. Questo numero equivale al 2,2% della popolazione tedesca. Se questo dato fosse vero vorrebbe dire che già oggi la probabilità che un cittadino tedesco venga a trovarsi a distanza ravvicinata con una persona infetta ma asintomatica è decisamente alta.
Nonostante critiche e dubbi sulla affidabilità dei risultati, lo studio dell’Università di Bonn ha creato una certa inquietudine. La Germania è, tra i grandi paesi europei, quello che ha saputo meglio contrastare il diffondersi dell’epidemia. Tra i motivi del successo ci sono la disponibilità di oltre 35.000 letti di terapia intensiva e la diagnostica, con circa 500.000 test eseguiti ogni settimana. Ne abbiamo parlato in un recente articolo sul nostro giornale. Questi fattori hanno tenuto relativamente basso il numero di decessi. Rispetto all’Italia sono stati poco meno di un quarto nonostante un numero di contagi non troppo inferiore a quello italiano. La domanda che si pone è quante siano, in Italia, le persone infette ma asintomatiche, libere di circolare.
Allargando il discorso all’Europa, la prospettiva della riapertura delle frontiere moltiplica gli interrogativi sui rischi che un inizio precoce della Fase 2 ci possa velocemente riportare alla Fase 1.
Fonti foto: Südtirol News – LaStampa.it – Laut.plus –
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