Roma Santa e Pastasciuttaia

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Con la Bolla «Spes non confundit», data in San Giovanni in Laterano lo scorso 9 maggio, Solennità dell’Ascensione, Papa Francesco ha indetto il Giubileo Ordinario dell’Anno 2025 e mentre la Città Eterna è in fermento, con i romani, i turisti ed i pendolari costretti a districarsi tra le centinaia di cantieri aperti, il mondo dell’ospitalità s’interroga su cosa mangeranno i circa 35 milioni di pellegrini che, secondo Unioncamere, si attendono nella Capitale.

Ipotizzando un’offerta variegata, che possa soddisfare tutti i gusti e le tasche, un dato sembra incontrovertibile: la pasta di semola di grano duro, nelle tipiche preparazioni esaltate dai mezzi d’informazione (carbonara, amatriciana, gricia e cacio e pepe) la farà da padrona.

La pastasciutta alla conquista della cucina romana

Nell’ultimo decennio il piatto della cucina romanesca che ha scalato le classifiche di gradimento, soprattutto degli stranieri, è la carbonara che pure, per un ricco ancorché non documentato filone letterario-gastronomico, non sarebbe né tipica, né originale.

L’irruzione della pastasciutta, e della pasta di semola di grano duro in particolare, nella cucina di Roma, seppure relativamente recente, ha finito col mettere in ombra la stragrande maggioranza dei piatti tradizionali.

Sino alla metà del 1800 nella cucina romanesca non vi era traccia della pasta secca che non appare né nel sonetto-menù «Er pranzo de le minente», scritto dal Belli nel 1831, né nella cucina giudaico-romanesca, la più antica e fedele trasposizione della tradizione gastronomica romana.

La pastasciutta, cui pure Aldo Fabrizi dedicherà il primo dei suoi libri di ricette e considerazioni in versi, è entrata inizialmente nella cucina popolare di Roma come pasta fresca e quindi come piatto tipicamente festivo quasi sempre di produzione casalinga.

Per generazioni di romani la pasta per antonomasia ha coinciso con le fettuccine all’uovo, magari da condire con le «rigaglie»: le interiora e gli scarti del pollo o della gallina che devono il loro nome al fatto di essere regalati alla servitù. Un piatto originariamente povero arricchito dal burro e dal parmigiano reggiano da consumarsi solo nei giorni di festa o nelle ricorrenze.

A Roma la pasta secca, forse la testimonianza più tangibile dell’influsso della cucina partenopea, ha iniziato a prendere piede solo dopo l’Unità d’Italia con l’apertura, nella Via dei Cerchi (oggi sede degli uffici comunali) del Pastificio Pantanella, a tutti gli effetti la prima fabbrica di Roma.

La pasta, spaghetti o ancora fettuccine, ha accompagnato quella «febbre edilizia» della fine dell’800 che ha devastato le ville storiche per sostituirle con i villini destinati alla nuova borghesia unitaria: ogniqualvolta si arrivava a «mettere il tetto» ad una nuova costruzione si celebrava il rito, tipicamente romano, di offrire alle maestranze, riunite alla stessa tavolata dei committenti e degli ingegneri, una spaghettata o una «sfettuccinata» abbondantemente annaffiata dall’immancabile vino dei Castelli.

Maccarone m’hai provocato

A due passi da Piazza di Spagna nel 1948 Giuseppe Caporicci, detto Otello, e sua moglie Nora Geronzi rilevarono un antico locale e lo trasformarono in una trattoria: «Otello alla Concordia» che oggi è un rinomato ristorante.

Nei primi anni ’50 la trattoria, anche per la bonomia dei proprietari disposti a far credito ad una generazione di cineasti squattrinati, divenne il centro della Commedia all’italiana visto che era frequentata, tra gli altri, da Scola, Monicelli, Age, Scarpelli, Fellini e da attori allora emergenti: Sordi, Gassman, Mastroianni, la Loren.

Non sappiamo se proprio tra le mura di Otello sia stata concepita la scena degli spaghetti di «Un americano a Roma» (1954), ma è certo che nella Commedia all’italiana il binomio tra Roma e la pastasciutta è diventato una costante: da «Un militare e mezzo» (1959) di Steno, con Aldo Fabrizi incapace di resistere ad un piatto di spaghetti al pomodoro, a «La cena» (1998) di Scola, in cui Riccardo Garrone si rifiuta di portare il ketchup ad una famiglia di turisti giapponesi che vorrebbero metterlo sulla pasta, passando per «Roma» di Fellini (1972) con la trattoria di Via Albalonga e «C’eravamo tanto amati» di Scola (1974) con la celeberrima scena del brindisi con i rigatoni.

Le ragioni di un successo annunciato

Guanciale, pecorino, pepe, uova, pomodoro.

Con la combinazione di questi semplici ingredienti, che talvolta si sommano, più spesso si alternano, la cucina romanesca confeziona i suoi piatti di pasta più caratteristici in cui il tempo occorrente per preparare i condimenti coincide con quello necessario per far bollire l’acqua e scolare la pasta: se proprio è necessaria la mantecatura il tempo lo si ruba a quello di cottura: «dev’esse quasi crudo lo spaghetto» ha sentenziato Luca Barbarossa ne «La dieta».

E se si va ancor più di fretta o proprio non si ha voglia di cucinare si prepara la «pasta dei cornuti», quella condita solo con burro e parmigiano trasformata da Alfredo alla Scrofa in una prelibatezza in grado di conquistare i divi di Hollywood.

Nelle preparazioni della cucina romanesca la pastasciutta, che risolve l’atavico problema della fame ed appiattisce le disuguaglianze sociali, rispecchia perfettamente lo spirito romano: «L’autentico romano è questo qui: risparmia er fiato ar massimo che po’, dondola la capoccia pe’ di’ “No!” e abbassa l’occhi si ha da di’ de sì. Pe’ risponne ar telefono fa: “Si…” Si ha da chiama’ quarcuno, strilla: “Aò!”» (Aldo Fabrizi, «Indolenza romana»).

Roma Santa, che attende con comprensibile apprensione l’inizio del Giubileo, e pastasciuttaia che davanti ad un piatto di spaghetti dimentica di essere diventata sempre meno romana.

Foto di Aline Ponce da Pixabay

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