A volte penso all’uomo come ad un viandante su strade che corrono lungo la spirale infinita dell’universo. Un continuo nascere, morire e rinascere; una costante trasmigrazione d’anime, con le loro energie; un’eterna trasformazione di queste energie, per dirla con Lavoisier.
Non basta dire “mondo” per indicare la dimensione in cui viviamo. I mondi sono tanti. C’è quello dell’anziano, fatto essenzialmente di ricordi filtrati dalla saggezza e dagli occhi umidi e malinconici della vecchiaia; c’è quello dell’adulto, perso in un sistema di certezze fragili ma vivide, che celano sotto la volta gigantesca della “follia” tutto ciò che non si può spiegare; c’è quello del ragazzo, che ha lo sguardo della speranza e fagocita colori, odori, suoni, sentimenti; e c’è il mondo del neonato, che ha forma di mammella e sapore di latte, ma che affonda le radici in un pleroma intrauterino che possiede il gene di ciò che è stato e di ciò che sarà, della memoria dell’anima, memoria millenaria. Come faremmo e, soprattutto, cosa saremmo se ricordassimo tutto?
Ebbene, ieri sera ho avuto modo di pormi ancora questa domanda, in modo estremamente piacevole. Sono andata al Barnum della Garbatella a vedere uno spettacolo teatrale contemporaneo, Rosy d’Altavilla. L’amore oltre il tempo, scritto e diretto da Paolo Vanacore e magistralmente interpretato da Carmen di Marzo, che padroneggia la difficile arte del monologo con fluidità e versatilità.
È un vulcano, Carmen. L’ho intervistata qualche mese fa, in occasione della sua interpretazione della Saracena ne Il Berretto a Sonagli, diretto da Francesco Bellomo, con un protagonista d’eccezione come il grande Gianfranco Jannuzzo. Teatro, cinema, televisione, prosa, ballo, canto: Carmen è un’artista davvero completa.
In questa pièce interpreta una donna molto intensa, tale Rosetta, di modeste origini, bidella in una scuola napoletana, fondamentalmente sola. Ha visto crescere la maggior parte degli studenti e li chiama per nome, dispensa consigli. Giannino è uno di loro e rappresenta un invisibile interlocutore in tre fondamentali momenti, che scandiscono l’inizio e la fine della storia di Rosy, e le incoerenze che vi si insinuano … “non credere a quello che ti ho detto” ….
Dalle parole di Rosetta capiamo che Giannino è innamorato di Tina, studentessa di un anno più grande, fidanzata con un suo compagno di classe. I due hanno un flirt di nascosto e, in un primo tempo, Rosetta consiglia a Giannino di portare quella storia alla luce del sole. C’è un altro? Non importa. Giannino deve avere coraggio, perché l’amore è sempre coraggioso, altrimenti non è amore. Mi tornano alla mente le considerazioni sociologiche di Goffman sulla predominanza del comportamento rispetto al sentimento: due persone possono amarsi con grande intensità, ma se non riescono a comportarsi adeguatamente, se, a fatti, a parole, non riescono ad esprimere quel sentimento, rischiano di perderlo, perché l’altro non capirà le intenzioni e volgerà l’attenzione altrove.
Rosetta ne sa qualcosa. Nella sua solitudine, infatti, è in compagnia di molte persone, in realtà: tutti coloro che hanno corredato la sua vita precedente, di cui lei serba un preciso, dettagliato ricordo, al punto da amare ancora, perdutamente, Alfonso, l’uomo che le rapì il cuore cent’anni prima.
Ed ecco che Rosetta si trasforma in Rosy d’Altavilla, celebre diva dei café chantant, la donna che era nella sua vita precedente.
Narra la sua storia. Lo fa parlando, ma anche cantando bellissime canzoni napoletane d’epoca che entrano nella trama, spiegano, raccontano. Il monologo diventa quasi un musical. La canzone napoletana ha una peculiarità: si canta, sì, ma soprattutto si recita, si sente, si vive nel profondo. Carmen di Marzo è bravissima nel rendere tutte queste sfumature della musicalità partenopea. Mentre canta piange, ride, ricorda, si commuove … Ci sono stati momenti in cui ho volutamente abbassato lo sguardo sul palcoscenico, abbandonando l’immagine in modo da sentire nel profondo il recitato in musica. Eccezionale.
Il racconto parte da quando era bambina in un’umile famiglia. La sua bambola era uno strofinaccio sul quale aveva incollato occhi, naso e bocca di carta. Ebbene, Carmen di Marzo fa davvero parlare, quello strofinaccio; lo muove al ritmo delle sue parole, un ritmo che non ha a che fare solo con la scansione del tempo, ma con l’intensità. Mi ha fatto pensare al Fred Astaire di un vecchio filmato, quando balla con una scopa e riesce a farla volteggiare, leggiadra, come se fosse una danzatrice esperta.
La trama s’infittisce. Si arriva presto all’amore con Alfonso, alla guerra, alla separazione, alla vita che prosegue, ai ricordi, ai pentimenti, al desiderio mai sopito …
L’intensità interpretativa di Carmen di Marzo commuove; l’attenzione con cui cura il linguaggio del corpo è davvero notevole. Nulla è lasciato al caso. Dal piede leso e trascinato di Rosetta, alle mani dapprima timide e poi vogliose di applausi di Rosy.
Il tema del doppio, poi, è da brivido. È come se Rosetta, attraverso i suoi ricordi, si guardasse allo specchio e vedesse Rosy. Questo specchio immaginario, fatto di rimembranze, è una porta che dà accesso ad un’altra dimensione. Lo specchio, però, ha un retro, una superficie non riflettente che non fa parte della dimensione in cui vive il riflesso, ma dell’altra; in qualche modo congiunge le due dimensioni. Rosetta e Rosy, dunque, potrebbero appartenere ad un’unica realtà ed è un dubbio che permane e commuove.
Dietro questa pièce c’è un lavoro di ricerca sulla canzone napoletana davvero notevole e c’è un grande potenziale narrativo: è come se la storia di Rosy contenesse tanti semi, uno diverso dall’altro a seconda della persona che la sente narrare. Si comprende, dunque, il perché Giuseppe Bellone della Lilit Books abbia voluto pubblicare un breve romanzo tratto da questa storia.
Carmen di Marzo sarà presto impegnata in un’altra pièce, 14, che racconterà la storia di un’assassina seriale. Attendo con ansia la sua nuova performance, ovviamente, ma spero anche che riprenda presto Rosy d’Altavilla, perché questa donna innamorata ed infelice, saggia e perduta merita ancora molti applausi.
Foto di Giacomo Spaconi
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