Sara Di Pietrantonio. 22 anni, studentessa di Economia presso la facoltà di Roma Tre. La vita di un’adolescente: l’università, gli amici, i primi lavori per mettere qualche ‘soldo’ da parte, i piani per l’estate 2016. Ma come ogni ragazza di 22 anni, oltre a tutto ciò che abbiamo appena elencato, troviamo l’amore, quello passionale, quello giovane, quello fresco. Quello che può uccidere.
Il dolore
Ed è purtroppo così: la giovane Sara è stata uccisa nella notte del 29 maggio scorso mentre tornava a casa, su via della Magliana in Roma. Sara è stata arsa viva insieme alla macchina che la madre le aveva prestato per ‘andarsi a bere una cosa’ con la sua amica. Sara è stata uccisa dall’amore malato, dalla gelosia, dall’essere lasciati ed è stata abbandonata sul ciglio della strada, tra le urla di un dolore che non ci permettiamo di descrivere.
Sara ha gridato, urlato, chiamato aiuto ma nessun essere umano -se così si può definire- ha dato una mano a questa povera ragazza che stava pagando il prezzo di una storia d’amore travagliata. Ebbene, nessuno si è prestato a soccorrere Sara; nessuno ha chiamato il 113, il 118. Chi quella notte è passato davanti a quell’auto in fiamme, ha tirato dritto, verso casa, pensando già a quel morbido cuscino che avrebbe accolto la sua mente libera di pensieri. Perché in quei pensieri non c’era Sara.
La realtà
Ma parliamo facile. Chiunque potrebbe rispondere con la frase «perché tu ti saresti fermato/a?» oppure ribattere sostenendo che «al giorno d’oggi non si sa mai di chi ci si può fidare, non senti la televisione?». E ipotizziamo, quindi, che nella testa dei Romani siano passati questi sopracitati dilemmi.
Possiamo puntare il dito contro il 27enne che per vendicarsi ha ucciso la sua più giovane ex ragazza, il quale è chiaramente affetto da un disturbo psicologico di entità ben più grandi di noi (ma soprattutto, non è questa la sede per determinare ‘l’orrore mentale’ di quel ragazzo); possiamo puntare il dito contro coloro che non si sono fermati, ma chi non avrebbe premuto l’acceleratore; ma semplicemente puntiamo il dito contro noi stessi, noi che siamo sulle nostre comode poltrone e dietro uno schermo lanciamo sentenze di morte nemmeno fossimo il Terzo Reich. Puntiamo il dito contro la nostra indifferenza, contro il nostro essere diventati dei ‘senza morale’.
Roma come Milano, Bari….
Ora è accaduto a Roma, ma ieri è successo a Milano o domani potrà accadere a Bari: rendiamoci conto che le convinzioni standard, gli insegnamenti ricevuti da bambini, le esperienze provate sulla nostre pelle sono più o meno, di base, tutte uguali. I nostri nonni hanno, più o meno, vissuto una delle due guerre, pensate a quando vi sedevate sulle loro ginocchia e vi si stringeva il cuore nel vederli commuoversi per il racconto delle loro tragedie; quando, allora, abbiamo perso quella capacità di commuoverci, di aiutare, di essere solidali con il prossimo?
Possiamo ammettere che siamo stanchi, siamo indifferenti a ciò che succedere a un palmo di mano da noi, siamo ‘robot che compiamo meccanicamente tutti giorni gli stessi movimenti, ripetiamo le stesse parole e se qualcosa esula dalle abitudini e dal nostro ‘praticello’ verde ci tappiamo le orecchie, ci rendiamo ciechi davanti l’evidenza.
Un’ora da leoni, una vita da pecora
Ma tutto ciò non giustifica l’uccisione di una giovane ragazza, non giustifica l’indifferenza avuta davanti alla morte. Si deduca, quindi, che l’unico sentimento che attualmente i Romani, ma anche i restanti connazionali, è l’indifferenza. Badate bene, l’indifferenza davanti ad atti non convenzionali, perché poi siamo tutti bravi a urlare e gridare quando arriva il Renzi di turno o la Raggi alle elezioni.
Mi raccomando, l’indifferenza proviamola anche domenica prossima, mentre siete intenti a marcare una casella dentro quella gabbia; ah no, ci si dimentica che in queste occasioni siamo tutti dei leoni.
Leoni che appena torniamo alla nostra routine mostriamo il nostro essere pecore.
Noi come redazione ci avviciniamo al cordoglio della famiglia.
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