Schiavitù moderne: tu sai “chi” mangi?

Paola Clemente morì al sole ed in silenzio, lavorando come bracciante agricola per poter portare a casa una misera paga di € 27 al giorno. Paola lavorava a circa 300 km da casa: partiva a notte fonda, con il bus delle 2 diretto ai vigneti di Andria, per iniziare la sua giornata lavorativa alle 5.30 – acinellatura dell’uva -; non faceva ritorno a casa prima delle 15, a volte rientrava alle 18. Come lei altre braccianti pugliesi. Aveva 49 anni, l’amore di tre figli e di un marito, quando il 13 luglio 2015 morì tra i filari. Paola era italiana, eppure sedeva negli ultimi posti, in fondo, dove nessuno guarda. Paola era italiana, eppure sfruttata, vittima di caporalato e dell’arretratezza sociale dei tempi moderni.

“Io quell’uva non la voglio”  

Siamo soliti interrogarci, scegliendo dagli scaffali dei supermercati, sulle condizioni lavorative che l’azienda produttrice riserva ai propri dipendenti? E siamo certi di poterlo verificare leggendo l’etichetta? Abbiamo la certificazione di produzione biologica ed il marchio d’origine protetta, tuttavia ad oggi manca una certificazione etica dei prodotti italiani, poiché il sistema di accreditamento non lo prevede. Non dimentichiamoci del fatto che biologico ed etico non sono la stessa cosa.

Parlando di caporalato, è impossibile non ricordare storie come quella di Paola Clemente, Hyso Telharaj, Jerry Masslo. Le loro morti sono un pugno allo stomaco, un’ingiustizia dalla quale non si possono prendere distanze. Una condizione, la loro, che non dovrebbe fermarsi alla sconcerto da parte dell’opinione pubblica, ma che dovrebbe piuttosto condurre ad una scelta, una presa di coscienza in quanto cittadini e consumatori: “io quel prodotto non lo voglio”

Diventare influencers

Da circa 30 anni il nostro paese vive una drammatica stagnazione salariale, tuttavia lo sfruttamento non è figlio della sola crisi. Se da un lato vi è l’evidente difficoltà di arrivare a fine mese – bassi salari, basso potere d’acquisto – dall’altro vi è ormai la disabitudine a porci domande su chi abbia lavorato alla realizzazione del prodotto. Cosa racconta quella marmellata? Chi c’è dietro quell’etichetta? Acquistare una passata di pomodoro a 50 centesimi di euro dovrebbe indurci a chiedere se qualcun altro non stia pagando quel sottocosto al nostro posto. Così ragionato, lo sfruttamento possiede indubbi connotati culturali.

Come consumatori abbiamo il diritto ed il dovere di chiedere informazioni sulla tracciabilità del prodotto. Come acquirenti possiamo spostare l’attenzione, modificare i comportamenti ed impattare sui modelli di consumo. Sembra un processo lungo ed impossibile, non lo è: il consumatore, sviluppando una coscienza critica, acquisisce un grande potere e, tanto maggiori saranno l’attenzione e la pressione poste nei confronti della ditta produttrice, quanto più accorte e pronte dovranno essere le stesse imprese per poter rispondere adeguatamente alle richieste di acquirenti consapevoli. La trasparenza sull’intera filiera rappresenta ad oggi il mezzo più efficace, permettendo al consumatore di conoscere, quindi scegliere.

Non solo il sud Italia

Caporalato e sfruttamento non sono prerogativa di migranti stranieri: pur essendo questi ultimi particolarmente vulnerabili, poiché spesso ancorati ad uno status giuridico che li costringe nel limbo della burocrazia e di una vita precaria, gli italiani non ne sono esenti. Paola Clemente ne era un esempio. Altrettanto rilevante è sapere che il caporalato non riguarda solo il Mezzogiorno. Le inchieste degli ultimi anni hanno infatti denunciato il fenomeno anche nelle campagne e nelle grandi imprese del nord Italia.

I braccianti, in particolare immigrati, seguono la stagionalità del ciclo produttivo, spostandosi da una regione all’altra d’Italia. Le migliaia di braccia impiegate nella raccolta dei pomodori pugliesi in estate, ad esempio, possono con molta probabilità essere le stesse che in inverno raccoglieranno agrumi lungo la piana di Gioia Tauro; spesso in primavera i lavoratori si spostano in Sicilia per la produzione di pomodori Pachino, li troviamo nel Trapanese per la vendemmia, ed ancora in Trentino per la raccolta delle mele; non possono chiamarsi fuori la Lombardia, con la sua produzione di uva e mais in Franciacorta, la Toscana, in particolare nella zona del Chianti, il Lazio, dove gli indiani impiegati nell’Agropontino sono costretti a drogarsi per alleggerire il lavoro.

Il lavoro non è una merce

Non ci si può avvalere di alcuna maschera di fronte allo sfruttamento: non possiamo giocare la carta del razzismo, tantomeno calare il jolly di un sud arretrato e corrotto in mano alla mafia.

Il caporalato e lo sfruttamento sono sintomi di un sistema capitalistico che da sempre fa della terra e del lavoro merci utili alla massimizzazione del profitto, privando di un valore sociale, prima ancora che economico, anche lo stesso lavoratore.

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