La sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, arrivata dopo il ricorso sollevato nel 2002 da una cittadina italiana originaria della Finlandia, la quale lamentava la presenza di crocefissi nelle aule dell’istituto frequentato dai suoi due figli nella zona di Padova, ripropone il tema dei simboli religiosi nello spazio pubblico e del concetto di laicità degli Stati non confessionali.
“Il crocefisso nelle aule lede la libertà di religione degli alunni e quella dei genitori di educare i propri figli secondo le loro convinzioni”.
I simboli religiosi, alla stregua di quelli statuali, costituiscono un vero e proprio linguaggio che consente la conoscenza dell’identità attraverso una comunicazione rapida, diretta, efficace ed inoltre questi ultimi rappresentano uno o più valori che possono essere non coincidenti con quelli imposti o proposti dall’ordinamento giuridico.
La gestione di tali controversie è affidata ai principi delle costituzioni degli Stati, il diritto è lo strumento per la risoluzione pacifica delle convivenze: esso si crea e ricrea per adattarsi al contesto in cui ha efficacia.
I diritti secolari dipendono, quindi, dalle esigenze sociali: compito del legislatore è adattare la legge alle trasformazioni della società, evitando che tra questa e l’ordinamento giuridico si formi una frattura troppo profonda che porterebbe ad un’inevitabile situazione di conflitto.
Di fronte ai simboli religiosi, l’ordinamento può prendere diverse posizioni che spaziano dal vietarne l’esibizione, ritenendo che i valori da essi rappresentati siano in contrasto con i principi della comunità, all’assegnare ai simboli un valore positivo tutelato dall’ordinamento, astenendosi dall’impedire l’ostensione e l’uso degli stessi.1 (1 Vincenzo Pacillo, Diritto, potere e simbolo religioso nella tradizione giuridica occidentale: breve nota a margine, Dicembre 2004, su www.olir.it.)
Il tema dell’uso e dell’esibizione dei simboli è attuale anche in Italia dove si è assistito ad un ampio ed acceso dibattito sulla presenza del crocifisso negli spazi pubblici quali la scuola, le aule di tribunali, gli ospedali, riportando ancora una volta alla luce il delicato intreccio di relazioni tra istituzioni dello Stato e Chiesa cattolica.
Quello dell’educazione, in effetti, è un punto cruciale della convivenza tra gruppi sociali di diversa origine culturale e religiosa: la scuola può costituire il primo luogo d’incontro e di scambio e, soprattutto, di formazione dei futuri cittadini italiani, qualunque sia la loro origine.
A ben guardare, nessuna scuola italiana, sia essa confessionale o pubblica, privata o statale, può prescindere dall’insegnamento della storia del Cristianesimo e dei rapporti tra le istituzioni di governo e la Chiesa Cattolica, data l’enorme importanza che il Cristianesimo ha avuto nella storia del nostro paese e, più in generale, dell’Europa. Non si può studiare la storia, il diritto, la storia dell’arte, la letteratura, l’architettura, la grammatica e la lingua senza sapere nulla di Cristo, della Chiesa, del Papa.
Dall’“Orlando Furioso” alla “Divina Commedia”, dalla “Gerusalemme Liberata” ai “Promessi Sposi”, dai capolavori dell’arte e dell’architettura, lungo tutte le vicende dalla diffusione del Cristianesimo a Roma fino all’unità d’Italia, tutto il panorama storico, culturale e mentale è impregnato del messaggio cristiano.
È chiaro, quindi, come un qualsiasi studio della storia non può che includere un riferimento al Cristianesimo.
Se vista in questa prospettiva, l’ostensione del crocifisso in un’aula scolastica non contraddice assolutamente il principio di laicità che ha sicuramente una delle sue fonti proprio nella religione cristiana: il concetto di cultura o civiltà cristiana non coincide necessariamente con religione, quale insieme di dogmi e riti, ma esso richiama altresì leggi cristianamente ispirate che vincolano cristiani e non cristiani e sono considerate fortemente coerenti con sistemi legislativi laici e a-religiosi. Naturalmente, dato il contesto pluralistico delle società moderne, all’interno di una stessa aula scolastica coesistono differenti credenze religiose di individui per cui il significato culturale e religioso dei simboli è percepito in maniera difforme dalla maggioranza degli studenti italiani.
Nel piccolo spazio di un’aula scolastica si ripropone il problema della convivenza tra estranei che sono, però, destinatari degli stessi diritti di libertà, di coscienza e di religione. Diritti che, se esprimono il loro maggiore momento di frizione con riferimento all’identità delle persone e dei gruppi di nuovo insediamento, non mancano di influenzare anche le posizioni giuridiche consolidate.
Le numerose vicende giudiziarie degli ultimi tempi sono rivelatrici dell’esistenza, nella società italiana, di opinioni contraddittorie riguardo alla presenza dell’elemento religioso nella sfera pubblica e di come la questione sia ormai parte della discussione democratica.
Il grande flusso di “estranei” ha mutato la matrice culturale dell’Italia, la società che si vuole costruire ha sempre più la connotazione di una società pluralista. Ciò apre una riflessione anche sul ruolo dei simboli religiosi che rappresentano l’essenza intima di una parte della società che, sia essa maggioranza o minoranza, deve essere tutelata.
I simboli religiosi uniscono e mettono insieme coloro che in essi e tramite essi si riconoscono eppure, allo stesso tempo, dividono e separano coloro che in quei simboli non ritrovano sé stessi per cui, esibire un simbolo nella sfera pubblica di una società multiculturale può significare, per alcuni, voler rafforzare il patto sociale mentre, per altri, può significare sentirsi esclusi.
I simboli, quindi, non rappresentano l’imposizione del fanatismo religioso ma, al contrario, la difesa della propria identità, della propria essenza più intima.
Il livello giudiziario della questione del crocifisso evidenzia solo la punta dell’iceberg delle diverse domande di riconoscimento motivate religiosamente o culturalmente nello spazio pubblico e, a ben guardare, esse non riguardano la libertà di religione che è ampiamente garantita dai principi costituzionali.
Si tratta, invece, di domande relative alle ricadute culturali della visione religiosa nella sfera pubblica, della religione come cultura.
A dimostrazione di ciò il fatto che i sostenitori dell’importanza di questo tipo di rivendicazioni siano intellettuali e politici dichiaratamente laici, distanti dalle confessioni religiose che, però, non rifiutano di reinterpretare i valori cristiani in chiave culturale e politica, non come credenze religiose, ma come sottostrato del tessuto sociale, come costumi e stili di vita che contribuiscono a creare la solidarietà in una società.
In altri termini, esponenti del liberalismo, che pur riconoscono l’importanza della necessaria separazione tra Stato e Chiesa, non ritengono che la società si possa costituire artificialmente seguendo un modello dottrinario, credono che essa debba, invece, seguire progressivamente le varie tappe di crescita secondo la tendenza delle sue forze interne e la libertà di valore che essa esprime.
I liberali, dunque, sembrano riconoscere la natura estremamente duttile della laicità che si presta a varie interpretazioni: la laicità, prendendo in prestito le parole di Norberto Bobbio, “esprime piuttosto un metodo che un contenuto”. (2 Norberto Bobbio, Il dubbio e la ragione, La Stampa, Torino 2004)
Questa definizione consente, a mio avviso, di svuotare di senso polemico la dialettica laico/religioso, assegnandole invece tutte le potenzialità connesse alla forza dell’incontro e del dialogo.
Se la laicità coincide, infatti, con un metodo invece che con un contenuto si può dire che non si danno presupposti di inconciliabilità assoluta e che, nel metodo dell’incontro, del confronto e del dialogo si possono trovare i possibili punti in comune tra le varie visioni del bene.
In verità, basterebbe mettersi in una relazione tra eguali attribuendo a ciascuno la dignità delle proprie opinioni e delle proprie scelte.
Il metodo laico più efficace sembra, habermasianamente, quello del dialogo, del confronto, al quale ciascuno deve presentarsi, con le proprie posizioni, ed al tempo stesso con la volontà di ascoltare e capire l’altro.
In questa prospettiva si può essere credenti ed insieme laici; o anche “laicamente credenti”. Questo significa che non si deve usare la religione, né la propria ideologia, come una chiave di lettura onnicomprensiva, valida per tutte le situazioni.
Il metodo laico chiama piuttosto ad interrogare sempre e comunque la propria coscienza individuale di fronte alle scelte cui ci chiama la vita.
Non esiste quindi un’etica onnicomprensiva: abbiamo piuttosto diverse etiche individuali. Il metodo laico le presuppone tutte degne di essere prese in considerazione.
La laicità può, allora, essere concepita come un atteggiamento umano per certi versi indipendente dalle scelte religiose o forse addirittura come il possibile frutto di scelte religiose mature e di scelte a-religiose ugualmente ben ponderate.
Dobbiamo avere il coraggio di cercare un nuovo contenuto della laicità dello Stato, il più possibile vicino all’idea di laicità come metodo cui ho fatto riferimento. In questa prospettiva possiamo immaginare la laicità dello Stato senza vederla concretizzata nella sola separazione giuridica dalle Chiese.
Essa riguarda piuttosto un’attitudine dello Stato a confrontarsi con la comunità dei consociati, ossia con quanti la compongono a livello reale reclamando il rispetto delle libertà individuali e collettive, fra le quali occupa un posto specialissimo la libertà religiosa, dei singoli come dei gruppi.
La laicità non coinvolge tanto la dinamica separatista dei rapporti apicali fra lo Stato e le Confessioni religiose, ma concerne la tutela dell’espressione pratica della libertà di coscienza di ciascuno.
Uno Stato laico deve dimostrare la capacità di far convivere le diverse opzioni personali mettendole democraticamente in dialogo. Da un lato fissando regole e principi che la maggioranza democraticamente sceglie nel rispetto delle opzioni valoriali costituzionalmente date e, dall’altro lato, garantendo alla minoranza il diritto di esprimere il proprio dissenso; ed al tempo stesso vietando e punendo i comportamenti contrari alle regole ed ai principi democraticamente stabiliti. Da tale visuale l’attitudine laica dello Statocomunità rispondendo alle richieste provenienti dal basso, si pone “a servizio di concrete istanze della coscienza civile e religiosa dei cittadini” (Corte costituzionale, sent. 203/89).
Lo sforzo interpretativo che, citando Habermas, si richiede ai credenti per entrare a far parte del discorso democratico, viene richiesto anche al supremo principio della laicità rendendolo più “flessibile” nella definizione dei concetti giuridici in cui sono stati secolarizzati concetti, idee, credenze e valori che sono sicuramente pre-giuridici.
In un contesto pluralista, l’unità giuridica si scontra con una diversità sociologica e la validità, come anche l’efficacia delle norme giuridiche, è rinvenibile dal loro essere adatte a redimere le controversie nel tessuto sociale: esse sono applicabili fin quando e in quanto permane il loro presupposto sociale.(3 Eugen Ehrlich, La sociologia del diritto, in A. Carrino, Scienza giuridica e sociologia del diritto, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1992, p. 250)
Occorre, quindi, chiedersi se i concetti giuridici elaborati ed affinati per comporre i conflitti religiosi sono ancora utilizzabili per risolvere i conflitti culturali che insorgono nelle moderne società e se, allo stesso modo in cui si chiede al religioso di abbandonare gli assolutismi del suo credo, il giurista deve abbandonare le categorizzazioni concettuali a cui egli è abituato ed aprirsi ad un confronto con la società civile.
Se si prende in considerazione che le culture non sono realtà fisse, normativamente immutabili, e le si considerano come realtà dinamiche in continuo farsi, non dovrebbe essere difficile realizzare proprio uno degli obiettivi espressamente esplicitati all’articolo 3 della Costituzione, cioè la rimozione degli ostacoli “di fatto” alla realizzazione della dignità umana quale essa si esprime anche nell’appartenenza ad una religione.
Interpretare la laicità significa, in questo senso, interpretare i principi fondamentali della Costituzione affinché essi si adattino al contesto in cui essi si applicano.
Per concludere, se si considera la Costituzione come un classico senza tempo a cui ispirarsi per decisioni anacronistiche solo per confermare un’improbabile certezza del diritto, la strada da compiere per una effettiva solidarietà tra estranei è ancora lunga e tortuosa, ma se si considera la Costituzione come un classico con caratteristiche di contemporaneità, allora essa sarà in grado di ispirarci nuove domande. E, forse, è quello di cui abbiamo più bisogno.
di Deborah Capasso de Angelis
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