Solitudini

Camminare nella Roma deserta dei “giorni del covid” è come entrare in un dipinto di Dalì: ci assale il senso della vacuità. Alle porte della “fase 2”, Roma è ancora prigioniera in una dimensione che fatichiamo a riconoscere.

Ognuno di noi ha amato il silenzio e la solitudine; li ha cercati. A volte hanno allontanato le ragioni assillanti del mondo, facendoci sentire liberi. Oggi, però, hanno assunto un aspetto diverso.

Lo sa bene il diavolo, come funzionano queste cose: gli opposti coesistono. Lucifero ha un nome che indica il suo essere portatore di luce, Lux – Fero, ma domina l’oscurità infernale.

Allo stesso modo, il celestiale silenzio, la beata solitudine che ammantavano i nostri desideri di quando la vita era frenetica hanno rivelato il loro lato oscuro.

Siamo tutti abitanti di un nuovo mondo in cui la mancanza trionfa sugli affetti, la lontananza sostituisce l’unione, la paura giganteggia sul coraggio, e il silenzio è l’esperanto che accomuna tutti. Una lingua universale in cui raccogliere le parole chiuse nella nostra anima: intime, vere, luminose.

In silenzio preghiamo; in silenzio speriamo che le cose cambino; in silenzio attendiamo che ci venga consentito di uscire, di lavorare, disposti ad accogliere come un privilegio ogni nostro diritto, a ringraziare per uno spiraglio di libertà. Abbiamo esultato quando ci hanno detto che avremmo potuto incontrare i congiunti e abbiamo accolto questa parola come un abracadabra nel sentire che comprendeva ogni affetto stabile, senza pensare che se l’oggetto di una norma è individuabile solo attraverso l’interpretazione estensiva di una parola, non si amplificano solo i margini del lecito, ma anche quelli del proibito.

Anche il ricordo di quello che eravamo assume un aspetto peculiare, mentre si cammina nel deserto cittadino.

Si ha la netta sensazione della banalità dei programmi, delle agende, degli appuntamenti che riempivano i nostri giorni di “prima”.

L’uomo quantitativo, quello dei mille impegni, dei soldi, degli egoismi, sembra scomparso dalla città.

Ecco, la città …

Esse est percipi, diceva Berkeley. L’occhio percepisce l’apparenza e ne desume l’esistenza. C’è da chiedersi se Roma, non più percepita dagli occhi di tutti i suoi abitanti, esista ancora, o se siano loro ad esistere non più percepiti dagli occhi della città.

Ad ogni angolo sembra di vedere una traccia lasciata da corpi invisibili, un indizio del loro passaggio. Gli oggetti evocano la presenza della vita come fosse una trasparenza inafferrabile che scivola sulle loro superfici, si arresta sulle loro asperità senza mai farsi vedere. Possiamo solo intuirla. Chi avrà steso quei panni in un vicolo di Trastevere? Chi li ha indossati e quando?

E dov’è la persona che ha acquistato quelle belle automobili d’epoca che ci raccontano la sua passione per il passato?

È strano sentirsi tra i pochi elementi mobili in un paesaggio di oggetti.

A volte, con i loro passi rapidi e decisi, le persone giovani attraversano le strade fendendo l’aria solitaria e trasmettono un’idea di vita, di “normalità”, di cose da fare. Altre volte sono passeggiate tranquille, le loro, magari in compagnia dei cani, e tratteggiano con delicatezza il profilo di una città impigrita dalla quarantena.

Gli anziani, invece, soprattutto quelli soli, magari costretti ad uscire per comprarsi da mangiare, trascinano la loro fragilità e poggiano sui bastoni un peso di gran lunga superiore a quello del corpo, perché portano sulle spalle gli anni, i ricordi, la solitudine e, ora, anche la paura di un virus cattivo che potrebbe ucciderli e di una società ancora più cattiva che potrebbe rifiutarsi di curarli.

Gli animali sono i nuovi padroni di questa città dall’anima trasparente. A loro basta poco per stare bene. La solitudine non li spaventa.

Le cornacchie sorvolano giocose e indisturbate i tetti cittadini, le chiese, i monumenti. I gatti regnano su ogni più piccolo filo d’erba. Le anatre spadroneggiano sulle fontane e, con i gabbiani, si godono il fiume sotto un sole che sparge ovunque diamanti di luce.

Gli esseri umani, invece, sono coalescenti, come gocce d’olio nell’acqua: tendono a stare uniti. Ne hanno bisogno. Lo si percepisce persino in questi giorni: i pochi che si incontrano per strada si salutano pur senza conoscersi. La prossemica è falsata dall’obbligo della distanza, la prosodia sfuma dietro le barriere protettive, mascherine e occhiali ci rendono indistinguibili e distanti, come automi spaesati, ma il linguaggio del corpo riesce ancora ad esprimere propositi: muoviamo la testa in basso, quasi un inchino, un cenno di intesa tra sopravvissuti.

A volte ci scattiamo una foto, come a voler convincere noi stessi di essere lì, proprio lì, in quel paesaggio estraneo, in quella città un po’ quieta e un po’ inquietante.

Il covid ha obbligato tutti noi a nasconderci, a isolarci, a stare lontani gli uni dagli altri per sopravvivere. L’esatto contrario di quello che abbiamo sempre fatto di fronte a qualunque pericolo, ossia stare uniti, resistere insieme.

Dividere e lacerare sono due facce della stessa medaglia. Disuniti siamo lacerati; la nostra anima è dilaniata. Siamo vittime delle nostre ombre e ci sentiamo deboli, impauriti.

Stare gli uni accanto agli altri. È questo che ci rende forti.

Esistono realtà, tuttavia, che vanificano anche questa certezza. Se veramente fossimo forti nell’unione, non vivremmo in una società incapace di vedere i meno fortunati, i miseri effetti della nostra falsa generosità.

Non sono, forse, a rischio di contagio le persone che vivono per strada e mangiano seduti per terra, con il loro bagaglio di stracci?

E chi è che si arricchisce nell’accogliere uomini per poi farli vivere sotto i ponti, come nuovi schiavi, dai quali non si vuole più neppure il lavoro, bensì solo la presenza? Il Tevere ne è testimone. Non sono, forse, inesistenti le norme igieniche nelle loro fatiscenti dimore condivise con topi e gabbiani? Il rischio di contrarre il covid o qualunque altra malattia grave è altissimo e va al di là delle autocertificazioni e delle app che tracciano i movimenti. Loro sono drammaticamente invisibili.

Accoglienza. Un’altra parola che il “tempo del covid” sta evidenziando in tutto il suo prepotente dualismo: luci e ombre. Il silenzio di questi giorni, però, sembra voglia parlarne; parlare dei volti nascosti che fingiamo di non vedere, delle anime che riempiono gli spazi incorporei della città, delle solitudini.

Sì, il silenzio sta parlando e dovremmo ascoltarlo tutti. Tutti noi, miseri vinti di una democrazia ferita; tutti quei politici che, attraverso un’accoglienza indiscriminata, non si preoccupano del destino di miseria che elargiscono; tutti i rappresentanti della Chiesa, una Chiesa che, a volte, si limita a predicare.

La bellezza di Roma, però, è travolgente al punto da cancellare ogni parvenza di orrore.

Riflettiamo anche su questo e che sia di buon auspicio.

Arte e bellezza generano speranza, la speranza di un nemico vinto, il virus, e di uomini nuovi, capaci di pensare agli altri oltre che a se stessi.

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