Il terrorismo causa emergenze umanitarie e aumento dei flussi migratori. Per combatterlo più che i servizi di intelligence sono necessarie politiche di integrazione e giustizia sociale.
Il ministero degli esteri tedesco a Berlino ha sede nella ex Reichsbank nazista (la banca centrale del terzo Reich, ndr) e ha pareti molto spesse. Il 17 luglio scorso il ministro dell’interno Thomas de Maizière ha fatto una visita personale al suo collega Frank-Walter Steinmeier, ministro degli esteri. Accanto all’ufficio del ministro c’è una piccola stanza che viene usata per depositare telefoni cellulari e computer portatili quando si svolgono discussioni su temi sensibili. Secondo indiscrezioni del settimanale Spiegel, prima dell’inizio della riunione i ministri hanno spento i loro telefoni cellulari e li hanno depositati nella stanza dalle pareti spesse. Lo Spiegel ha rivelato che anche il ministro della difesa Ursula von der Leyen adotta misure speciali, in particolare per le comunicazioni via telefono. Prima di effettuare chiamate sensibili a Berlino, il ministro invia un ufficiale a consegnare un cryptophone, telefono cellulare criptato, al suo interlocutore. L’ufficiale chiama il cryptophone del ministro prima di passare il telefono alla persona a cui Von der Leyen vuole parlare. Semplice e geniale.
Le precauzioni descritte sono espressione tangibile del livello di inquietudine e di sospetto che da alcuni mesi aleggia a Berlino nelle stanze ministeriali e della cancelleria. Dopo lo scandalo dei i programmi di intercettazione della National Security Agency statunitense svelati da Edward Snowden, il cosiddetto “datagate”, il governo tedesco ha appreso l’esistenza di episodi che hanno mostrato un volto inedito della diplomazia e del modo di fare politica internazionale. Politici e funzionari ministeriali hanno dovuto confrontarsi con un nuovo tipo di spionaggio effettuato non da paesi come la Russia o la Cina, ma da un fedele alleato come gli Stati Uniti. Ed è proprio in merito ai rapporti tra Germania e Stati Uniti che i due ministri hanno avuto una conversazione strettamente confidenziale: solo pochi giorni prima era stata scoperta la presenza di un informatore all’interno dei servizi di sicurezza tedeschi (Bundesnachrichtendienst BND letteralmente: Servizio Informazioni Federale). Angela Merkel si era telefonicamente lamentata con Barack Obama. “Tra amici non ci si spia!” avrebbe detto adirata la cancelliera.
Tutto ciò non è stato privo di effetti, a cominciare dalla revisione delle procedure per la sicurezza in alcuni ministeri, tra cui quelli dell’interno, degli esteri e della difesa, e l’adozione, da parte di ministri e funzionari ministeriali, di cryptophone. Ma la conseguenza più eclatante è stata l’espulsione, agli inizi di luglio, del rappresentante della CIA in servizio presso l’ambasciata degli Stati Uniti.
Chi la fa l’aspetti! ovvero, scagli la prima pietra chi è senza peccato: il caso ha voluto che dopo solo qualche settimana la Süddeutsche Zeitung rivelasse che il BND aveva origliato una conversazione telefonica di Hillary Clinton quando era segretario di stato. Secondo lo Spiegel lo stesso John Kerry sarebbe stato spiato dal BND; inoltre l’intelligence tedesca avrebbe preso di mira anche la Turchia, paese che, nonostante rapporti con la Germania tutt’altro che idilliaci, è pur sempre un alleato NATO.
Ha senso organizzare atti di spionaggio e controspionaggio tra paesi alleati quando la minaccia alla sicurezza viene da altrove? Gli episodi citati hanno avuto luogo mentre il terrorismo di matrice fondamentalista islamica dilaniava ampie aree del Medio Oriente. Recentemente gli scontri hanno conosciuto una escalation impressionante soprattutto in Iraq, dove l’intera popolazione degli Yazidi è in fuga per sottrarsi alle minacce di sterminio dell’ISIS (Stato Islamico dell’Iraq e della Siria, ndr), autoproclamato califfato sotto la guida Abū Bakr al-Baghdādī, da molti considerato il successore di Osama Bin Laden.
Per fermare i miliziani jihadisti dell’ISIS l’America è intervenuta militarmente. L’Europa reagirà in modo sparpagliato. Francia e Inghilterra invieranno le loro forze armate, l’Italia, forse, armi leggere. Quanto alla Germania, Angela Merkel si è detta pronta a supportare i curdi nella lotta contro i terroristi, tuttavia la decisione relativa all’invio di truppe o di armi verrà presa il 1. settembre, quando il Bundestag (parlamento tedesco, ndr) si riunirà in seduta plenaria straordinaria.
Le immagini della decapitazione del giornalista americano James Foley e del suo boia incappucciato hanno fatto il giro del mondo. La perfetta pronuncia inglese dell’uomo incappucciato è un segno che conferma una realtà amara che è stata sottovalutata: nelle fila delle milizie jihadiste ci sono molti giovani occidentali. Il 24 agosto il quotidiano inglese Daily Mail ha dato la notizia che i servizi di intelligence di sua Maestà lo hanno identificato. Si chiama Abdel Majed Abdel Bary John ed ha soli 24 anni. Ora l’Inghilterra invierà in Medio Oriente i suoi corpi speciali per catturare il terrorista.
Ma quanti sono, in Europa, i giovani uomini (e le giovani donne) che hanno giurato fedeltà allo Jihad e che si sono arruolati? Secondo il Soufan Group, agenzia informativa americana, sarebbero circa 2000 quelli reclutati in Siria, ma altri adepti vivono nelle città europee, in America e perfino in Australia.
Più che spiarsi l’un l’altro, i servizi segreti occidentali dovrebbero collaborare per individuare, identificare e neutralizzare i terroristi. Tuttavia la vera questione è se la lotta al terrorismo si possa vincere facendo uso esclusivamente di intelligence e corpi speciali. Combattere il terrorismo vuol dire capirne le cause. Vuol dire capire come mai giovani uomini e giovani donne occidentali abbiano potuto prendere la decisione di arruolarsi nelle milizie terroriste. La ragione non sta nella crisi occupazionale e per comprenderla non c’è bisogno di scomodare i servizi segreti.
Molti dei giovani europei divenuti terroristi sono figli di migranti. Sono nati in Europa dove hanno vissuto e frequentato le scuole. Vengono dalle periferie delle grandi città europee e sono l’espressione della mancata integrazione. Per capire il fenomeno dell’arruolamento di giovani occidentali nelle fila di Al Qaeda o dell’ISIS bisogna chiedersi se le politiche nazionali europee di integrazione sociale hanno avuto o meno successo o se sussistono pericolose forme di discriminazione latente. Negli anni passati nelle periferie delle città europee, in particolare in Inghilterra, Francia e Svezia, vi sono stati drammatici episodi di violenza metropolitana. In Germania tutto ciò non c’è stato e tuttavia anche a Berlino, Francoforte, Amburgo e Monaco, dimostrazioni e proteste non sono mancate. Uno dei temi caldi oggetto di accese proteste è il sistema scolastico tedesco, da molti considerato iniquo. In nessun altro paese dell’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, ndr) il successo dei ragazzi a scuola dipende così tanto dalla loro estrazione sociale come in Germania.
La prima e più immediata conseguenza dei conflitti in corso é la fuga della popolazione civile verso luoghi in cui trovare salvezza. Molte delle vie di fuga conducono alle coste del Mediterraneo dove i migranti si addensano in attesa di trovare un posto su un barcone per arrivare in Europa. Giunti in Europa il calvario non è terminato e li aspetta un lungo percorso di inserimento e di integrazione, per tentare di rifarsi una vita.
Sullo sfondo di conflitti e catastrofi umanitarie la politica arranca. L’Europa, particolarmente esposta per via della vicinanza geografica, paga il prezzo della incompiutezza dell’unione. L’assenza di una politica unica europea riguardo a sicurezza, difesa, esteri e migrazione si riflette non solo in azioni scoordinate autonomamente messe in piedi dai singoli stati per contrastare le emergenze, ma anche in politiche nazionali che non facilitano l’integrazione e creano discriminazioni e ingiustizia sociale.
di Pasquale Episcopo
Nelle foto, in alto un mercato di strada a Londra; a destra la sede della Reichsbank a Berlino, oggi sede del ministero degli Esteri; in basso i territori sotto il controllo dell’ISIS in Iraq e Siria.
Caro Pasquale ,ho letto il tuo articolo su ” In Libertà ” che tratta il tema della cruenta espansione in medio oriente dell’islamismo radicale , il più grave dei problemi esistenti oggi sul teatro internazionale . E’ un fenomeno che ha radici lontane perché figlio della colpevole indifferenza dei paesi occidentali sui drammatici problemi di disuguaglianze sociali ed ambientali legate allo sfruttamento delle immense risorse petrolifere di quell’area. Cioè lo sfruttamento del petrolio dalla fine del 19° secolo , per via diretta od indiretta , sostanzialmente gestito e pilotato dalle grandi Oil Companies nel loro interesse e senza la minima attenzione agli enormi sconvolgimenti socio/ambientali che tale saccheggio avrebbe prodotto nelle popolazioni locali . L’enorme ricchezza generata da tali risorse è finita quasi ovunque nelle mani di ristrette cerchie di oligarchi ingordi ed incapaci di utilizzarle per il progresso dei loro paesi. In quasi tutti i Paesi arabi esistono ristrette monarchie che viaggiano in Roll Roice nel lusso più sfrenato a capo di popolazioni che vivono nelle tende e viaggiano coi cammelli. La storia non fa sconti e questi enormi squilibri sociali hanno generato e generano sanguinose rivolte e movimenti migratori crescenti e incontrollabili. Ed anche la nascita di movimenti che sfruttano il fanatismo religioso – facile degenerazione del credo coranico – per la conquista di posizioni di potere.
Il proselitismo di questi movimenti nei paesi occidentali ne rappresenta un aspetto inquietante per i rischi di attacchi terroristici ma non credo sia dovuto ,se non in pochi casi , a problemi di mancata integrazione. L’islamizzazione nelle società occidentali è in atto da molti decenni ed esistono ormai intere colonie di immigrati pienamente e pacificamente integrati nelle rispettive comunità europee. Io ne ho un esempio di fianco a casa ; un intero enorme quartiere di case popolari occupate in prevalenza da arabi e magrebini i cui figli vanno nelle nostre scuole e le cui madri popolano i nostri esercizi e i nostri mercati rionali. Esistono è vero le frange di fanatismo ma si tratta di casi isolati paragonabili a forme di fanatismo di vecchia memoria e di pura marca occidentale. Il capitalismo si sa- vedi ad esempio in USA – genera soggetti squilibrati.
Il problema è come combattere queste forme di esplosione fanatico/estremista originate anche da secolari conflitti confessionali interni al mondo islamico ma prima soffocati dai regimi dittatoriali presenti nell’intera zona arabo/afro/islamica .
Son d’accordo con te che le attività di intelligence non siano da sole sufficienti a domare queste esplosioni di rivolta ideologica e probabilmente neppure i bliz bellici statunitensi ; almeno non in modo risolutivo dato che l’impiego delle armi non soffoca ma anzi alimenta l’odio. Il processo non sarà breve e dipenderà penso in larga parte dalla reazione della vasta area di islamici moderati che volenti o nolenti sono coinvolti in questo tsumani politico/sociale.
Un caro saluto
Riccardo Padovani