Da Tangentopoli a Calciopoli, il suffisso “-poli” ormai usato per additare qualsiasi scandalo

Ogni anno la lingua italiana registra, volente o nolente, l’ingresso di migliaia di nuovi vocaboli all’interno del proprio lessico: centinaia e centinaia di neologismi (ossia parole e locuzioni nuove, ma anche parole vecchie che assumono nuove accezioni) che si impongono con la forza della tecnologia, della cronaca, del dibattito, della cultura. Un fenomeno assolutamente naturale, inevitabile e fisiologico per un’entità fluida e vitale qual è una lingua moderna, ma se da un lato tali termini operano con funzione di rinnovamento, dall’altro portano spesso con sé diversi pericoli, fra cui quello di un vero e proprio abuso, soprattutto per le parole che hanno riscosso maggiore successo, in particolar modo in ambito giornalistico. Si prenda ad esempio la vicenda del termine Tangentopoli. Nato sui giornali per indicare un termine ben preciso (ossia Milano, la Città delle Tangenti, come venne definita a suo tempo), la parola si caricò ben presto di un significato più ampio per estensione prese a denotare prima l’insieme degli scandali concernenti le vicende giudiziarie di quegli anni e poi divenne sinonimo di un sistema illegale nella sua interezza. Tuttavia, il successo (nel bene e nel male) che questa parola riscosse diciotto anni fa circa non si è ancora spento, se ancora oggi nuovi scandali e nuove polemiche trovano termini simili con cui essere indicati: l’elenco è lungo e va dai recenti Scajopoli, Vallettopoli a Calciopoli o Moggiopoli, da Affittopoli a Sanitopoli, da Fangopoli a Bancopoli e via dicendo. Solo a titolo di curiosità, ad esempio, il termine Moggiopoli è stato definito il nome del 2006, come è emerso da uno studio effettuato, dapprima in sede accademica e poi con i voti del pubblico su internet, dalla Rivista italiana di onomastica e dal Laboratorio internazionale di onomastica dell’università romana di Tor Vergata. A partire da Tangentopoli, il suffisso “-poli” è ormai usato, o meglio abusato, per additare qualsiasi scandalo; ma oltre ad essere spesso segno di poca fantasia da parte di alcuni giornalisti, è interessante notare la scelta del termine “città” (polis) per indicare il luogo dei misfatti, luogo che non è solo fisico ma è soprattutto metaforico, un non-luogo, città immaginarie in cui si concentrano peccati, scandali, abusi di potere e di denaro, città che suscitano riprovazione e prese di distanza, biasimo e timori. Allora forse può apparire più chiaro quello che si configura come un tentativo, anche e in particolar modo a livello linguistico, di isolare in un unico spazio, ben definito e delimitato, l’insieme di questi eventi e dei protagonisti di queste vicende. Forse non è superfluo sottolineare come l’uso di certi termini da un lato agisca come meccanismo di richiamo alla prima e giornalisticamente più fortunata delle invenzioni linguistiche, mentre dall’altro finisca col coincidere coi desideri (più o meno inconsci) del pubblico di rifiutare e relegare quegli stessi eventi in una società distante, separata: un’altra polis, un’altra città per l’appunto. Città che assieme ad altre costituiscono ormai una vera e propria geografia morale, sentita ed avvertita come tale da lettori e telespettatori.

Simone Di Conza

Foto: www.wakeupnews.eu

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