È tempo di test Invalsi, ovvero quel sistema di esami standardizzati per studenti della scuola elementare (II ^ e V^), media (III^, durante gli esami a giugno) e superiore (II^) che valutano la matematica, l’italiano e la lettura. Ora in forma cartacea, ma forse già dal 2015 per via telematica, le prove Invalsi hanno modalità differenti per alunni con bisogni educativi speciali.
Le polemiche da parte di docenti e genitori hanno accompagnato la Prova Nazionale fin dai suoi albori nel 2007, accusata di standardizzare ed appiattire le conoscenze dei ragazzi, conformando i programmi degli insegnanti. Anche quest’anno, i Cobas hanno già annunciato uno sciopero.
In realtà, il sistema Invalsi dovrebbe servire per una analisi della situazione dell’istruzione italiana: i risultati sono pressappoco gli stessi, con picchi di eccellenza al Nord-Est e risultati disastrosi al Sud, dove però gli insegnanti vengono addirittura accusati di aiutare i ragazzi, di fatto falsando i risultati –che già così evidenziano una situazione drammatica.
Inoltre, fotografa la situazione all’interno delle stesse scuole, in modo formalmente anonimo (l’anonimato è garantito dall’associazione al nome di un codice, facilmente ricollegabili da parte di docenti/presidi).
Il punto è che i professori non devono sentirsi valutati dai test, né adattare in modo ossessivo i programmi alle richieste di questi.
Chi è contrario alla Prova non fa proposte su metodi alternativi per individuare punti di forza e di debolezza della Scuola italiana, ignorando che prove standardizzate di questo genere -durante le varie fasi dell’istruzione e con varie modalità- vengono proposte in moltissimi Paesi: dagli Stati Uniti alla Germania, dall’Inghilterra alla Spagna.
Dunque, i test nazionali sono un male, ma un male necessario; uno strumento, insieme alle statistiche OCSE-Pisa e a quelle sull’abbandono scolastico, che vuole rilevare l’effettivo stato di salute dell’istruzione italiana.
di Giovanni Succhielli
foto: investireoggi.it
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