Il nuovo film di Quentin Tarantino è arrivato in città. E quando arriva al cinema un nuovo film di Tarantino, è difficile che non si venga a sapere. Un po’ per la fama che il cineasta di Knoxville-Tennessee si è magistralmente costruita nel corso del tempo. Un po’ per fatti extra-cinematografici: un tempo era il suo atteggiamento provocatorio e sopra le righe, erano i litigi e le scazzottate con i colleghi Oliver Stone e Spike Lee, recentemente è stato il battibecco nei confronti della polizia statunitense, colpevole secondo il regista di atteggiamenti violentemente razzisti e discriminatori nei confronti della popolazione nera, con tanto di partecipazione di Tarantino alla marcia di protesta avvenuta a New York quest’autunno, e susseguente minaccia dei vertici della polizia di boicottare, in modi che non sono stati resi noti, il film.
Ma veniamo appunto al film.
“Gli odiosi otto” inizia nel bel mezzo di una tormenta di neve. Una diligenza solca gli sterrati innevati, trasportando John Ruth detto il Boia e la sua prigioniera, Daisy Domergue, una fuorilegge che Ruth sta trasportando alla cittadina di Red Rock perché sia impiccata. Lungo la strada caricheranno altri due passeggeri, il maggiore nero Marquis Warren e il sedicente sceriffo Chris Mannix, e giungeranno alla locanda di Minnie. Lì troveranno ad attenderli altri personaggi, che si scoprirà, nel corso del proseguo della storia, non essere chi hanno detto di essere, e insieme a loro rimarranno bloccati dentro l’emporio per via della tormenta.
Dunque un luogo chiuso e concentrico a fare da cornice alla vicenda. E per chi conosce un po’ la filmografia di Tarantino il ricordo andrà subito a “Le Iene”, il primo folgorante e ultraviolento esordio del regista. Si, luogo chiuso e ultraviolenza sono gli ingredienti del film, perché di ultraviolenza se ne vedrà parecchia anche qui. Qualche intellettuale testa d’uovo potrà diligentemente fare riferimento a “Porta chiusa”, testo di Jean-Paul Sartre dove i personaggi rimangono chiusi in un luogo isolato, e dove, come recita una famosa battuta della piece, “l’inferno sono gli altri”. Ma a Tarantino non interessa fare citazionismo fine a se stesso, anche se non è escluso che il testo di Sartre gli possa essere noto. Può darsi, Tarantino non va mai sottovalutato.
Altro topos del regista: la logorrea dei suoi personaggi, e anche in questo caso non si smentisce. I suoi personaggi-marionette non fanno altro che parlare, dialogare, scambiarsi battute anche un po’ assurde e demenziali, allungando il brodo di una narrazione che però fatica a trovare la sua centratura.
In effetti da Tarantino eravamo già stati abituati al continuo gioco fra struttura e antistruttura: cioè a dire al suo continuo costruire meccanismi narrativi montabili e rismontabili, in cui le giunture e i raccordi della narrazione fossero mostrati in bella vista. È sempre stato il suo marchio di fabbrica. Lo ha fatto con il gangster-movie, con il film di samurai, con il film-trash blaxploitation, con il film di guerra e ora, dopo il precedente “Django unchained”, lo continua a fare anche con il genere americano per eccellenza dei bei vecchi tempi: il western.
I film di Tarantino sono pezzi di Pop-art, dicono di lui i più accesi apologeti. Eppure qui si avverte una certa stanchezza, la percezione che il gioco sta diventando fiacco, freddo e scoperto. La messa in scena è di alto livello, ma manca il calore, l’emozione, l’empatia con i personaggi. Come si fa ad empatizzare con personaggi immersi in una simile mattanza senza redenzione. Sono otto odiosi figli di buona donna, questi personaggi di Tarantino, e tali restano anche per il più simpatizzante e benintenzionato degli spettatori.
Si è parlato, riguardo al film, di struttura alla “Mouse trap”, o alla “Dieci piccoli indiani”. Cioè di una vicinanza di questo script con i romanzi ad incastro della giallista Agatha Christie. In parte è vero, c’è il luogo chiuso, ci sono personaggi che non sono quello che sembrano, c’è un mistero da svelare. Ma c’è una sottile ma non trascurabile differenza.
In un romanzo-tipo di Agatha Christie il lettore può, con un po’ di acume, arrivare a scoprire il delitto solo con gli indizi che la giallista gli mette davanti al naso. E’ una sorta di patto fra chi scrive e chi legge. Qui no. Il gioco è saldamente nelle mani del narratore, che inserisce elementi e ne nasconde altri a sua discrezione, senza tener conto dello spettatore. E quindi lo spettatore non può capire o prevenire la prossima mossa, semplicemente perché non ha elementi sufficienti per farlo. Questo è il motivo per il quale il gioco risulta freddo, gelido, a vicolo cieco.
Forse sembrerà un giudizio un po’ forte ma, al di là di un certo gusto nell’incedere impetuoso del racconto, questo film sembra il campionario dei peggiori difetti filmici di Tarantino, senza però la leggerezza dei suoi pregi e del suo carisma autoriale.
Il regista ha dichiarato che dopo questo, che è il suo ottavo lungometraggio, ne farà un altro paio e poi si metterà in pensione. Si metterà a scrivere romanzi e saggi sul cinema. Perché decide di fermarsi? Non è forse la logica conseguenza di un autore a corto di fiato, che dopo aver iniziato in maniera magistrale un discorso sul cinema dai tempi di Pulp Fiction, non ha saputo rinnovarsi, ma ha continuato a battere la stessa pista, gonfiando man mano i suoi lavori come durata, come dimensione e come respiro, facendone più dei cartonati che non dei film con un vero spirito vitale? Rischiando di raschiare il fondo del barile delle sue premesse, fino alla noia e alla ripetitività?
E non basta realizzare il film in sfavillanti 70 millimetri, se poi la storia si svolge per lo più in interni, e dove si finisce per inquadrare solo chiostre di denti marci e scheggiati, o barbe incolte intrise di sangue e sugo di spezzatino. E’ come sparare ad un moscerino con un cannone.
Commento musicale di Ennio Morricone piuttosto anonimo, sebbene candidato agli Oscar.
Ah, la polizia ha esultato per il tutto sommato risicato risultato al botteghino del film negli Stati Uniti (una sessantina di milioni di dollari, appena in pari con le spese), adducendo a motivo il boicottaggio degli agenti, che sono svariate migliaia su suolo americano e che hanno convinto mogli, figli, amanti e amici vari a disertare le sale dove “Hateful eight” veniva proiettato.
Realistico o meno che sia questo scenario, è vero senz’altro che in Usa il film non è andato come ci si aspettava. Ma i film di Tarantino, si sa, girano in tutto il mondo.
In attesa quindi che se ne faccia, come forse sarebbe stato preventivamente più saggio, uno spettacolo per Broadway (essendo più una narrazione teatrale che da cinema), riusciranno i nostri “Odiosi otto” a rifarsi e prendersi la loro rivincita sulla macumba della polizia statunitense, negli appetitosi mercati e circuiti cinematografici del resto del mondo?
di Gianfranco Tomei
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