The Irishman, un film che è già un classico

L’ultimo film di Martin Scorsese è uscito anche in Italia con una programmazione mirata alle piccole sale d’essai e quasi contemporaneamente è stato lanciato in streaming su Netflix.

Per uno strano scherzo del destino uno dei pochi grandi Maestri di cinema ancora in vita ha avuto bisogno dei fondi della più grande piattaforma di contenuti streaming americana, da molti giudicata come una delle cause del declino del cinema classico, inteso come visione nelle sale cinematografiche tradizionali.

Prodotto dallo stesso Scorsese insieme alla Tribeca di De Niro, ha necessitato di un budget di 140 milioni di dollari (soprattutto per gli effetti speciali digitali della Industrial Light & Magic utilizzati per ringiovanire gli attori).

Tre ore e mezza di visione per tre decadi di storia americana raccontati dal punto di vista del protagonista Frank Sheeran, un Robert De Niro (alla nona collaborazione con Scorsese) che ha voluto fortemente e per primo la realizzazione di questo epico affresco regalando all’amico regista il libro da cui è tratto, I heard you paint houses di Charles Brandt: al centro le vicende criminali di Sheeran, detto l’Irlandese, reduce della seconda Guerra Mondiale affiliato alla famiglia mafiosa di Russell Bufalino (Joe Pesci) e implicato nella misteriosa sparizione del controverso leader sindacale Jimmy Hoffa (Al Pacino, qua al suo esordio sotto la direzione di Scorsese).

Si riforma così la “banda” Scorsese-De Niro-Pesci (l’ultimo film insieme è Casinò del ‘94), 25 anni dopo è nuovamente una lezione di grande cinema d’autore.

I toni sono cambiati, non c’ è più il vigore dinamitardo e sfacciato di Quei bravi ragazzi, i ritmi si dilatano e il gangster movie diventa un pretesto per il 77enne regista newyorchese per una riflessione sulla vecchiaia, la solitudine e la morte.

Sheeran, ormai anziano e malandato ospite di una casa di riposo, racconta al prete la sua storia criminale, non solo per cercare un’assoluzione (la matrice cattolica del regista è nota e non sorprende), ma per trovare riparo contro l’isolamento e il lento declino nell’attesa della morte: questa è la vera punizione per i suoi peccati. 

The Irishman può essere considerato per il gangster movie alla stregua di ciò che Gli spietati di Clint Eastwood ha rappresentato per il western: un autunnale capitolo finale che va oltre gli stereotipi del genere, un destrutturato manifesto di un’epoca in cui tutto è perfettamente posizionato dove ci aspettiamo che sia: la sceneggiatura precisa, il ritmo ora lento ora veloce a seconda delle necessità narrative, i dialoghi ficcanti, le interpretazioni magistrali degli attori (per Al Pacino la possibilità finalmente di lavorare con Scorsese, per De Niro un omaggio alla sua carriera), i movimenti di macchina fluidi e mai banali, le musiche sempre adeguate alle situazioni.

Il film è pervaso da un umorismo nero, persino nei momenti più violenti, e da una malinconia di fondo, come se ci si rendesse conto di essere arrivati alla fine, di aver detto tutto quello che si poteva dire su questo genere. Un canto del cigno che incanta, affascina; tre ore e  mezza che scorrono veloci come solo il puro cinema riesce a fare. Un film che è già un classico.

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