Per anni gli Stati Uniti, attraverso film anche di gran pregio come Il Cacciatore, Platoon, Apocalipse Now, Full Metal Jacket, Good Morning Vietnam e tanti altri, hanno tentato di convincere il mondo d’aver vinto la guerra in Vietnam. Certo, non la guerra di cui parlano i libri di storia, ma la guerra combattuta per dimostrare chi sia più eroe, più coraggioso, più altruista, più fedele alla propria nazione. Forse sarebbe meglio definirla gara, più che guerra. I soldati americani, da quei film, sono sempre usciti di gran lunga migliori degli altri.
Oggi, con il film The Post di Steven Spielberg, si osserva la questione da un altro punto di vista. A vincere sono sempre gli Stati Uniti, che non perdono mai nei propri film di propaganda, ma non gli Stati Uniti dei governanti, bensì il resto della nazione, od almeno una parte di essa, coalizzata contro i segreti e le bugie dei “piani alti” e l’inutilità della guerra in Vietnam. Forse c’è anche un messaggio più o meno subliminale a Trump, ma, per come il film è realizzato, è un messaggio che lascia il tempo che trova.
La trama si basa su una storia vera, una storia importante. L’eroina del Washington Post; il suo coraggio, manifestato con determinazione nel mondo di uomini in cui viveva; la battaglia combattuta contro il bavaglio che i politici avevano intenzione di mettere alla stampa sono argomenti granitici che costituiscono una parte fondamentale della storia statunitense. Tuttavia, non è l’importanza degli argomenti trattati a determinare il successo di un film. Gli argomenti servono per un buon documentario su History Channel e c’è di buono che il documentario non pretende di vincere l’Oscar.
Spielberg ritiene un vanto l’aver girato il film in nove mesi. Che sia stato girato in soli nove mesi si vede. E non è un vanto. La standing ovation alla prima newyorkese suona come pura piaggeria, alle mie orecchie. Vi dico perché.
Innanzi tutto The Post è un film inutilmente lungo. La libertà di stampa è minacciata dal presidente Nixon, il quale, ignaro del Watergate che sta per esplodergli in mano, tenta di bloccare la pubblicazione di documenti, sfavorevoli a lui ed ai suoi predecessori, usando la Procura ed i giudici della Suprema Corte, i quali, infine, non lo assecondano. Ecco, ho scritto la trama in quattro righe. Spielberg ci ha girato intorno con un film di più di due ore.
A parte un paio di riprese in soggettiva, sempre molto emozionanti, ed un altro paio di riprese che svelano ottima fotografia, il film è piatto e girato con lo stile cinematografico del parlarsi l’uno sopra all’altro, di cui Woody Allen è maestro ma che lascerei solo a lui, perché sa farlo davvero bene. Per il resto solo tanta confusione, mirata a rendere l’idea di una redazione degli anni Settanta, con gli attori che, o si ammucchiano l’uno sull’altro come topini in gabbia, si pensi alla scena in cui riordinano i documenti in casa di Hanks, o corrono da una parte all’altra neanche facessero una staffetta: casa, redazione, marciapiede, rischio di essere messi sotto, casa, redazione, marciapiede … Le suole delle scarpe di Tom Hanks, spesso in primo piano, perché, si sa, i piedi sulla scrivania fanno tanto cronista d’assalto, sono consumate. Più che plausibile. Corri di qua, corri di là, avranno consumato anche il pavimento dei teatri di scena, oltre alle suole delle scarpe.
Quanto alla recitazione, deludente anche quella. Due mostri sacri come Tom Hanks e Meryl Streep fanno incasso, si sa. L’altra faccia della medaglia, però, è che ci si aspetta molto da loro. Io non sono tra quelli che ritengono bravo a tutti i costi un attore solo perché ormai invecchiato, né tra quelli che ritengono che un attore bravo sia necessariamente ed assolutamente bravo sempre. Recitare non è una scienza esatta, non è un’equazione matematica, qualcosa tipo “bravo 10 volte = bravo da 11 all’infinito”. Dipende dalla storia, dalla regia, dal momento che l’attore vive.
Tom Hanks, in questa pellicola, è quasi invisibile. C’è, intendiamoci, occupa le scene, ma non è incisivo, non buca lo schermo. E’ lì, con un improbabile mezzo ciuffetto in bilico sulla fronte, a dividersi tra scene da girare stampandosi in faccia il suo classico sorriso asimmetrico, che vorrebbe essere anche enigmatico, e scene in cui serrare le labbra e corrugare la fronte, nel tentativo di indicare, così, un coacervo di sensazioni che spaziano dalla preoccupazione alla rabbia. Ha sicuramente offerto un servizio migliore alla causa anti-Vietnam interpretando Forrest Gump.
Meryl Streep, invece, recita in modo manieristico, accentuando la sua classica, trita e ritrita posa tra l’indeciso ed il nevrotico: occhi di qua, occhi di là, mezzo sorriso, mezze parole e risata nervosa. Brava è brava, ma, sinceramente, dà l’idea di aver recitato “pale in acqua”, come diciamo noi canottieri, ossia senza fatica, facendosi portare dalla corrente, mettendoci dentro tanto mestiere e poco cuore. La doppiatrice italiana, poi, non l’ha di certo aiutata.
Ma veniamo alla parte migliore del film, ossia alla motivazione della sentenza della Suprema Corte, recitata con un’enfasi da parola di Dio, nel silenzio generale: “La stampa non è al servizio dei governanti, ma dei governati”. Ci è mancato poco che scattasse l’inno dei Marines, in sottofondo, e che tutti facessero il saluto militare alla John Wayne. Peccato che la stampa, quella vera, non dovrebbe essere al servizio né dei governanti, né dei governati, ma della verità, che è di tutti, poiché ha una responsabilità enorme, quella di scrivere la storia.
Non dico che The Post non debba essere visto, ma aspetterei di vederlo in TV. Non serve né lo schermo grande, né il dolby surround per sorbirsi due ore e un quarto di una storia narrabile in non più di sessanta minuti e che avrebbe potuto essere realizzata decisamente meglio, tenuto conto dei mostri sacri che annovera.
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