Nella seconda metà del 1100, a difendere gli interessi della Chiesa contro quelli di Enrico II Plantageneto si levò la voce dell’arcivescovo di Canterbury Thomas Becket, esimio giurista ed ex Cancelliere del Re. La sua forte presa di posizione dapprima infastidì il Sovrano, poi divenne un’intollerabile onta da lavare, se necessario, col sangue. E sangue fu. Alla fine di dicembre del 1170 lo scomodo ecclesiastico cadde sotto una lama di spada nella sua stessa chiesa.
La Corona di Enrico II
La figura di Thomas Becket che noi tutti conosciamo è quella di santo e martire, che ha ispirato grandi opere letterarie e musicali, in particolare quella di Thomas Eliot, rappresentata nei maggiori teatri del mondo. Ma cosa accadde storicamente a Becket? Molto prima del XVI secolo, che segna la definitiva frattura tra la corona inglese ed il cattolicesimo, Becket ed Enrico II ingaggiano un conflitto di potere che giunge all’assassinio.
Alla morte di Enrico I, si apre un’aspra lotta dinastica tra sua figlia Matilde, unica figlia dopo la morte del figlio maschio nel naufragio della reale White Ship, e Stefano, nipote di Enrico I in quanto figlio di sua sorella Adele, maritata a Stefano di Blois. Matilde è giovanissima vedova del Sacro Romano Imperatore Enrico V, moglie in seconde nozze di Goffredo il Bello duca di Normandia e madre di Enrico Plantageneto.
Alla morte di Enrico I, Matilde si trova in terra d’Angiò e Stefano, dunque, prende il potere, reclamando per primo il trono. Così facendo, però, spacca in due l’Inghilterra. Una gran parte di baroni, infatti, capeggiati dal barone Roberto di Gloucester, fratellastro di Matilde, appoggiano costei come destinataria del potere regale. La questione si risolve nel 1154 a Winchester, dove viene concluso un trattato in base al quale Stefano si impegna ad adottare il figlio di Matilde, Enrico, in modo che sua sia la successione al trono d’Inghilterra, oltre ai già vasti possedimenti francesi. Dopo l’improvvisa morte del padre, Goffredo il Bello, infatti, Enrico, è diventato uno dei più potenti uomini di Francia, cosa che ancor più ingolosisce gli inglesi, sempre molto interessati ad espandersi oltre la propria isola. Nel 1154, il figlio di Matilde diviene re Enrico II e dà inizio alla dinastia dei Plantageneti.
Sua legittima consorte e madre dei suoi eredi, tra i quali Riccardo Cuor di Leone e Giovanni Senza Terra, è Eleonora d’Aquitania, ex moglie di Luigi VII di Francia.
L’annullamento del matrimonio tra Eleonora ed il Re francese, deciso a Beaugency davanti ad un consesso di notabili e prelati, era stato approvato persino dal Papa, essendo i due coniugi imparentati tra loro ed essendo Eleonora sterile, perché aveva dato alla luce solo femmine. A parte il tragico e becero accostamento, meritevole d’ogni più aspra critica, tra la nascita di figlie femmine e la sterilità, come se solo la nascita di un maschio potesse essere definita tale, il legame parentale tra i coniugi non era certo una novità. La maggior parte dei matrimoni d’alta nobiltà venivano contratti tra parenti stretti. A dirla tutta correva lo stesso legame anche tra Eleonora ed Enrico II. In realtà, dietro quell’annullamento, che fa scalpore in tutta Europa, ci sono le tante avventure amorose di questa moderna ed indomita donna. Quando era ancora sposata, ad esempio, si dice abbia avuto una storia con suo zio paterno, Raimondo, affascinante trovatore, con un suo maestro, Gilberto Porretano, con il nemico per eccellenza, il feroce Saladino, e, forse, persino con Goffredo, padre di Enrico. Di certo, anche la storia con Enrico nasce mentre lei è ancora sposata, perché convolano a nozze solo due mesi dopo l’annullamento. Lui ha diciannove anni, lei trenta. Le malelingue affermano che la sua dote, ossia la terra d’Aquitania, estesa tra Poitiers e Bordeaux, è allettante tanto da rendere giovane ed avvenente qualunque donna. Un cronista del tempo riassume così la questione: “Il Poitou e la Guyenne ch’ella portava in dote, ne facevano una vestale agli occhi di Enrico “. Ma non è questa l’unica ragione di quel matrimonio, sebbene Enrico II, a crisi matrimoniale in atto, dichiarerà che l’unione era stata frutto di mera ragion di Stato.
In verità, al tempo, l’avvenenza di questa donna fuori dal comune non è affatto sfiorita, anzi è amplificata dal fascino consapevole della sua età. In pochi sanno resisterle. Ecco dunque che Eleonora da regina di Francia diviene regina d’Inghilterra.
La politica di Enrico II è inizialmente molto saggia. Per prima cosa libera l’Inghilterra dai soldati di ventura che re Stefano aveva assoldato e che, in realtà, invece di mettere ordine nelle strade, creavano disordini. Poi estende l’autorità dei tribunali regi, ponendo le basi per la nascita del diritto comune (Common Law), estraneo al sistema strettamente feudale conosciuto sotto re Stefano. Quindi riprende la politica dello Scacchiere, inaugurata da Enrico I, e, per favorirla, cambia la conformazione dei nuclei abitativi, creando, attraverso l’estensione del villaggio, maggiore coesione tra popolo, cavalieri e governanti. In quest’ottica, anche i castelli vengono lentamente trasformati in manieri di pietra, meno idonei a sopportare un assedio, ma più indicati per le attività ludiche, le giostre, l’arte, il contatto con il popolo, pur sempre segnato da precisi confini. I cavalieri divengono ben presto esperti d’armi ma anche gentiluomini di campagna, dediti al governo delle contee in nome del re ed allo sfruttamento del patrimonio rurale. Enrico, inoltre, si circonda di saggi consiglieri, esperti di varie materie, in modo da creare un apparato governativo solido ed inattaccabile.
Uno di questi esperti, nel campo del diritto, è Thomas Becket. Enrico coglie in lui un grande valore intellettuale e, nonostante non sia di nobili origini, lo nomina cancelliere, una carica di grande importanza che presuppone egualmente grande fiducia.
Inizialmente Becket difende gli interessi della Corona con lealtà e scrupolo. Enrico II si affida completamente a lui. E’ così profonda la sua fiducia, che gli concede l’arcivescovado di Canterbury. La nomina, tuttavia, muta radicalmente il loro rapporto.
L’onestà intellettuale di Becket, infatti, non è in vendita. Come cancelliere aveva fatto gli interessi della Corona, ma ora che sta per indossare i paludamenti sacri sa per certo che farà, con pari zelo, gli interessi della Chiesa. La sua lealtà nei confronti del ministero svolto, qualunque esso sia, supera anche la più salda delle amicizie. Arriva egli stesso a dirlo al Re, con grande stupore di quest’ultimo. E’ il principio della fine.
Omicidio a Salisbury: lo sbocciare del seme della discordia
Quando un prete di Salisbury viene accusato di omicidio, Becket esercita i privilegi ecclesiastici privando l’assassino del suo status religioso ed obbligandolo a chiudersi in convento da penitente. Ad Enrico II la soluzione piace poco, poiché la ritiene estremamente discriminatoria nei confronti degli altri cittadini, i quali, in quella stessa posizione, sarebbero stati condannati a morte. Per il Re, del resto, la parola privilegio è esclusivo affare della Corona; e non si è mai tirato indietro nell’affermarlo, come dimostrano i contrasti con i feudatari, infine piegati al volere regio. Può, dunque, il Re accettare che l’arcivescovo di Canterbury eserciti apertamente un siffatto privilegio, quand’anche ecclesiastico?
Onde evitare il ripetersi di un simile conflitto di interessi nell’immediato futuro, Enrico II riunisce a Clarendon un’assemblea di nobili e prelati al fine di emanare costituzioni che dirimano qualunque futuro conflitto tra Sovrano e Chiesa.
Cinque sono le costituzioni in cui si afferma senza limiti la supremazia del potere civile su quello ecclesiastico. Nella prima si destituisce, di fatto, il potere del pontefice, al quale non ci si può più appellare. Nella seconda viene proibito ai preti di recarsi a Roma senza permesso regale, onde evitare che si rendano informalmente messaggeri di lamentele. La terza impedisce al Papa di scomunicare sia il Re, sia le alte cariche del regno. La quarta, che si riallaccia all’episodio di Salisbury, concede giurisdizione esclusiva allo Stato sui crimini più gravi, anche commessi da prelati. La quinta, infine, nega ai tribunali ecclesiastici la competenza in materia patrimoniale a prescindere dallo status laico o religioso di chi sia coinvolto.
Le Costituzioni di Clarendon animano accese discussioni, è chiaro, ma, infine, vengono approvate all’unanimità e sottoscritte dallo stesso Thomas Becket.
Papa Alessandro III, che in quel momento risiede a Sens, a causa dell’ingerenza di Federico Barbarossa negli affari di Roma, condanna aspramente le statuizioni di Clarendon, rivendicando i privilegi del clero ed il suo potere.
Becket, il quale, come detto, se chiamato a fare gli interessi di qualcuno, si prodigava per farlo al meglio, rimane scioccato dalla condanna papale e, colto da sensi di colpa per aver firmato quelle costituzioni, revoca la sua approvazione. Tornare indietro, però, non è possibile: la sua firma ha valore legale. Gli rimane una sola via, pertanto, coraggiosa ai limiti dell’incoscienza: rifiutarsi di applicarle. E così fa, dando inizio ad un’aperta battaglia tra l’arcivescovado di Canterbury e la Corona; una battaglia che durerà sette anni.
La ritrattazione di Becket induce il Re a convocarlo, ma l’arcivescovo non si presenta. Viene, dunque, tacciato di ribellione e, soprattutto, di spergiuro, visto che ha iniziato a disapplicare una legge che egli stesso ha contribuito a varare; una legge che, ironia della sorte, impone il suo arresto, in questo frangente. Becket lo sa e fugge dall’Inghilterra, rifugiandosi nelle Fiandre sotto falso nome. Poco dopo raggiunge il Papa a Sens.
Eleonora ed i suoi uomini
Il ricongiungimento tra Becket e Papa Alessandro III in territorio francese mette in una posizione molto difficile il re di Francia nei confronti di Enrico II.
Tuttavia, un po’ per evitare fratture insanabili con l’Inghilterra, un po’ per intercessione della bella Eleonora, ex moglie di Luigi VII, mai dimentico dell’amore nutrito per lei, suo eterno amico ed alleato, il Sovrano francese cerca di fare da paciere tra Becket ed Enrico II, mostrando a quest’ultimo comprensione ed alleanza. Tuttavia, neppure la dichiarata vicinanza dei due Regnanti soffoca la ribellione di Becket, il quale, con l’appoggio del Papa, minaccia l’interdetto sull’Inghilterra e la scomunica del Re, quand’anche vietata dalle costituzioni di Clarendon.
Enrico II replica con altrettanta durezza, invitando chiunque a non unirsi a Beckett pena l’immediata impiccagione. In più sospende ogni tributo alla Chiesa.
A questo punto si sarebbe dovuta realizzare la minaccia del Papa, il quale, invece, non reagisce.
S’infosca il cielo; esplode la tempesta
Ben altro evento subentra a fiaccare il Re d’Inghilterra, però. Per volere del destino o per effetto delle preghiere del Papa, Enrico II si ammala. Inevitabilmente lo scontro ideologico e politico si attenua. Sia il Re, sia Becket sembrano più disponibili ad un accordo ed il re di Francia si fa da tramite. Ciononostante, in un primo incontro, non si giunge ad accordo alcuno. Viene chiesto loro di scambiarsi un segno di pace. Becket si dichiara disposto a farlo “per volere di Dio”; Enrico II, timoroso che in quella frase pronunciata dall’arcivescovo possa celarsi un inganno, rifiuta. Il tentativo di conciliazione riuscirà qualche mese dopo nel castello di Amboise, ma sarebbe un errore pensare che la pace diplomatica ivi raggiunta abbia basi concrete.
Becket è libero di rientrare in Inghilterra, questo sì, e riveste ancora la carica di arcivescovo di Canterbury, ma, in virtù di questi suoi poteri, scomunica tutti i vescovi che avevano dato appoggio al Re durante il loro dissidio. E fa qualcosa di ancora più grave: il giorno di Natale del 1169 pronunzia anatema nei confronti di Nigel, di Sackville, e di Robert Broock, nobili di alto lignaggio, i quali, per fedeltà alla Corona, si erano appropriati dei terreni dell’arcivescovado, disperdendo alcuni beni. Nonostante la malattia, Enrico II tenta di proteggere i suoi fedeli e pronuncia le parole passate alla storia come una condanna, ma che forse non lo sono: “Sono ben disgraziato, se fra tante persone che io mantengo, non ve ne sia una che sappia vendicarmi degli affronti che ogni giorno ricevo da un miserabile prete”.
L’interpretazione che se ne dà è quella di una richiesta uccisione.
Passa ancora un anno nella tensione tra il Enrico II e Thomas Becket. Il dissidio non cessa di esistere e, dunque, quattro nobili vicini al Re decidono di passare all’azione: si intromettono con la forza nel palazzo dell’arcivescovo e gli chiedono di revocare le scomuniche. Becket, con fare sereno e niente affatto spaventato, si rifiuta di obbedire. I quattro congiurati esitano ad attaccarlo, vedendo in lui una sicurezza che solo la vicinanza a Dio può dare. Vogliono davvero attaccare ed uccidere un messaggero dell’Altissimo? Le ore del giorno si allungano verso la sera. Becket, anteponendo il proprio ufficio sacro alla propria incolumità, si avvia verso la cattedrale per i Vespri. Si dirige all’altare, muovendosi con cautela e grazia nell’oscurità del luogo. La voce di uno dei congiurati lo raggiunge: “Dov’è il traditore?”. Becket tace; ma la sua mancata risposta non ha nulla a che fare con la paura. Semplicemente non si sente un traditore e, dunque, non può rispondere a quel richiamo. Lo dimostra il fatto che, quando viene chiamato per nome, risponde con sicumera, si presenta ai congiurati e si dice pronto a morire in nome di Cristo.
“L’uomo giusto, come audace leone, dovrebbe essere senza paura. Eccomi. Non traditore del Re. Io sono prete, un cristiano, salvato dal Sangue di Cristo, pronto a soffrire col mio sangue” gli fa dire T. S. Eliot nel suo dramma. Il punto di non ritorno è stato superato. I pochi uomini che tentano di difendere l’arcivescovo vengono facilmente vinti e le spade insanguinate raggiungono lo stesso Becket, ferendolo a morte sull’altare della sua chiesa. Pochi istanti e l’arcivescovo si accascia, affidando la propria anima a Dio, a Maria, ed ai Santi patroni della cattedrale; quindi scivola esanime sui gradini avvolto nel suo stesso sangue.
Coloro che non hanno dato battaglia sono ancora immobili, terrorizzati da quanto appena caduto; di fronte a loro i congiurati passano con passo rapido uscendo dalla chiesa indisturbati.
L’eco di questo assassinio si propaga per tutta Europa e diviene argomento di sdegno e di accusa per lo stesso Enrico II, al quale si attribuisce il maledetto ruolo di mandante, un ruolo che la storia ancora oggi non nega.
Thomas Becket, invece, diviene Santo per il martirio coraggiosamente affrontato in nome del suo Dio, sebbene la sua santificazione sia oggetto di parole favorevoli e meno favorevoli sia tra i contemporanei, sia tra i posteri. Circa cinquant’anni dopo l’assassinio, un dotto dell’Università di Parigi, giocando con il paradosso, dirà che Beckett ha meritato la morte perché ribelle nei confronti del Re, che era tale per designazione divina. Gli antichi egizi lo chiamavano Uroboros, il serpente che si morde la coda: al sovrano designato da Dio la Chiesa deve sottomettersi, ma la Chiesa è rappresentata dal Papa che parla in nome di Dio, al quale qualunque sovrano deve sottomettersi. Niente di più simile ad un cerchio, ad un loop logico.
Di certo, al di là dei torti e delle ragioni, l’assassinio consumato in una chiesa perde gran parte del carattere punitivo per assomigliare ad un sacrificio umano ed il sangue che scorre sul pavimento di una navata sacra grida quasi sempre vendetta con una voce capace di squarciare il velo del tempo ed essere udita per l’eternità.
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