Torino, 1883: vecchio, malato, solo in una città ostile e lontano dalla sua terra natia, incompreso dai familiari, don Domenico Lopresti si affida alla penna per raccontare le sue memorie, sentendosi ormai vicino alla fine. Domenico però non è un uomo comune, la sua tormentata esistenza è legata indissolubilmente alla grande storia d’Italia, di cui è stato testimone diretto: Poerio, Musolino, Pisacane, persino Garibaldi sono alcuni dei personaggi che ha incontrato. Antimonarchico, ex affiliato alle “sette”, di origine calabrese, sognava per le sue terre una condizione migliore, senza l’oppressione della tirannia borbonica: ma ben presto avrebbe visto i suoi incrollabili ideali, per i quali viene costretto a lunghe permanenze in carcere, dove avrebbe perso gli anni migliori della sua vita, scontrarsi senza rimedio con la rassegnazione dei popolani e la falsa fede di molti suoi compagni. Il narratore ricorda, oltre alla lunga prigionia, il rocambolesco dirottamento della nave che avrebbe dovuto consegnarlo allo stato Pontificio, la fuga verso l’amato sud e la partecipazione all’avventura dei Mille; poi ancora il noioso incarico burocratico affidatogli in Calabria dal nuovo governo piemontese che diffida dei repubblicani e l’ennesima disperata fuga verso Mileto per ricongiungersi con l’esercito garibaldino, che verrà però fermato in Aspromonte. Il sogno di Lopresti si è definitivamente infranto; raggiunge Torino grazie all’aiuto di un’amica, conscio di non rivedere mai più i luoghi amati. In conclusione agli amari ricordi, a mo’ di catarsi, rievoca l’infanzia tante volte negata e rimossa, e come ebbe origine in lui, ultimogenito che non conobbe mai il padre carbonaro, l’amore per l’avventura e per le sorti della patria.
Noi credevamo di Anna Banti, pubblicato nel 1967 e riportato alla ribalta dall’omonimo film del 2010 con Luigi Lo Cascio, non si direbbe scritto in quegli anni: lo stile ed il lessico sono quasi ottocenteschi, contemporanei alle vicende trattate. La narrazione viene condotta con un tono tutt’altro che celebrativo, ma con la rassegnazione dolorosa e cupa di un uomo (un Carlo Altoviti pessimista, un Edmond Dantès invendicato) che ha visto infrangersi tutti i suoi ideali e che si trova costretto a sopravvivere in una società vuota e fatua che sembra aver dimenticato il passato, il sacrificio di tanti giovani; una società in fondo non così diversa da quella contro cui aveva inutilmente lottato.
Valeria Gubelli
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