schegge di umanità: la dama bianca
un cancello; ho le chiavi.
entro.
inizialmente non ci volevo andare; gli amici avevano cercato in tutti i modi di convincermi; figuriamoci, dopo mesi che non uscivo andavo proprio a casa di sconosciuti; sì, me ne avevano parlato, e bene anche, ma non mi sembrava proprio il caso e poi che gli raccontavo; insisti che ti riinsisti ci sono riusciti, mi hanno convinta e ci sono andata.
una discesetta ripida che ti guida verso destra, ed un vialetto che costeggia piante grasse e mura bianche, e nell’aria un profumo acre di varechina misto a trementina; sulla mia sinistra ci sono delle finestre aperte, sbircio in una, e su un tavolo, sotto al davanzale, vedo barattoli colmi di pennelli e spatole come fossero vasi da fiori; proseguo il viottolo e noto che la sabbia ne fa da padrona, ma è piacevole vedere le piccole dune che affiancano i bordi del muretto a sostegno del bordo che lo divide dalla strada.
un mondo nel mondo.
non occorre chiedere permesso, lei, claretta, è “de core bono”, come dicono a roma, e aspetta sempre tutti. ti appare con un sorriso che trapela la dubbiosità dell’occhio a cercare chi tu sia, ma ti viene incontro ugualmente esclamando un ciao ed allungando la mano che ti porta a sé per darti un bacio sulle guance.
– vieni, vieni avanti e accomodati, adesso chiamo mio figlio e ci mettiamo fuori.
lei non lo sa, ma per me siamo già fuori.
chiama andrea, e lo avvisa del mio arrivo.
non è suo figlio, ma per lei lo è, ed anche per lui non è sua madre, ma per lui lo è. andrea ha il cuore buono, e non solo perché ha avuto un trapianto, ma perché c’è nato con la bontà addosso. era architetto; dopo l’operazione ha lasciato tutto e si è messo a dipingere, è la sua passione; i medici gli hanno detto che la sua vita è un vuoto a rendere e cioè che prima o poi dovrà ridare ciò che gli hanno prestato, ma per ora, per ora ha deciso di vivere con claretta, e la loro casa è aperta a tutti coloro i quali hanno bisogno di una boccata d’aria nuova, e non solo di mare.
altri abbracci e ci sediamo su sedie di plastica rimediate non so dove, infatti non ce n’è una uguale, e impiantate sulla spiaggia come piccoli ombrelloni quadrati, poi lei si volta e, sempre continuando a parlare, va a prendere del vino fresco.
ed io la osservo.
la vedo come nessuno me l’aveva mai descritta: sandali color crema con il tacco alto di sughero, caviglie sciolte, e a salire due polpacci belli e leggermente muscolosi che segnano una storia. indossa un semplice copricostume bianco che le disegna i morbidi fianchi e ti invitano a guardare le sue spalle dritte e rocciose e la pelle,
e la sua pelle dolcemente abbronzata e quel collo magro, coperto da ciocche tinte di rosso ad imbrogliare gli anni che avanzano.
non puoi non chiederglielo, e lo fai,
e lo faccio.
– quanti anni hai clarè?
non ti risponde mai se non ha la possibilità di guardarti negli occhi, perché vuole godere del tuo stupore. forse questa è l’unica cosa che la tiene così fresca e raggiante.
ritorna con bicchieri e bottiglia ed un sorriso che le divide in due il volto. mi accorgo che s’è cambiata d’abito, questo è più aderente, ha messo dei pendenti ai lobi ed una leggera linea di matita nera al contorno degli occhi.
– quanti me ne dai?
e tu ti arrendi per farla godere appieno,
ed io mi arrendo.
– mi arrendo clarè, dimmi quanti ne hai.
– so’ der ventitré, c’ho l’anni io che te credi, ho fatto ‘na vita, ‘na vita de sacrifici.
ha fatto la vita, io lo so, ma non glielo dico e lei non me lo dice;
non te lo dice, ma tutti lo sanno e la rispettano. è una gran donna.
– li sordi, quanti n’ho visti, ma tanti tanti!,
e mentre te lo racconta gesticola con le mani, che ti sembra quasi di vederli lievitare su quel tavolo intorno al quale siamo seduti.
– so’ armatrice io, che nun ce credi?,
e chiede consensi con lo sguardo ad andrea che le è di fronte, e che sorride, e che ci dà la conferma dicendoci che quel foglio che lo attesta è incorniciato e lo tiene nella sua camera da letto accanto al crocifisso.
– ma ‘na paura, ‘na vergogna quanno portavo mi’ fratello sull’autobus, tutti se credevano che era mi’ fijo.,
va da un discorso all’altro come per incatenarti al suo sguardo e tu la segui incantato,
ed io la seguo incantata.
– io l’ho cresciuto e ho cresciuto pure mi’ sorella. mamma lavorava all’ospedale, io ero piccola, ma jeli portavo all’ora giusta pe’ allattalli. ma che ne sai ch’ho dovuto fa pe’ campà.
già, che ne so io,
ma i suoi occhi parlano da soli, ti guardano, ti violentano; vogliono che tu le chieda di andare avanti,
quasi ti implora,
ed io glielo chiedo.
– continua clarè, che bella che sei, dimmi.
– c’avevo du’ barche, ‘n peschereccio e ‘na turbina. la turbina quanno l’ho comprata è stata la prima de fiumicino, pescava telline e cannolicchi.,
e indica il mare a due passi da noi e tu la vedi quasi arrivare quella barca, lei lo fissa e gli occhi si fanno lucidi e beve un goccio di vino rosso, solo un goccio per farci compagnia; lei non beve.
– che barche regà, belle, e poi c’avevo quattro che lavoravano pe’ me, ‘n mozzo ‘n marinaio ‘n macchinista e poi c’era er capitano. ho fatto sordi a palate e c’ho comprato ‘n casolare a mi’ fratello a cattolica, porello, je piaceva; poi me so comprata n’appartamento lì ‘ndò stavo, era ‘n sogno; poi ho fatto sposà mi’ sorella e poi ho fatto sposà pure la fija, ma poi, come so arivati, così se ne so annati. er colera, m’ha rovinato er colera; me so dovuta venne tutto. ma nun me frega niente sai, adesso sto qui, che me manca? c’ho sta casa ch’è der demanio e n’ pago ‘na lira. ma c’ho le foto, oh quante ce n’ho. sto bbene.
allibiti, ci guardiamo allibiti, ha ottant’anni e una forza negli occhi che ti vergogni solo di respirare.
– torno subito, aspè.
si alza per andare dalla sorella che vive con lei da una vita, ma credo lo abbia fatto apposta per mascherare il dolore.
la sorella è vedova, dice andrea, ma i suoi figli se la sono scordata e lei continua ad allevarla; ora è malata.
– che vi avevo detto, non è speciale mia madre? la chiamavano la dama bianca.,
ora è lui che racconta ed il volto, già colorito, si abbronza ancora di più.
– quando le sue barche attraccavano al porto, lei arrivava sotto braccio al capitano tutta vestita di bianco, risplendeva, e tutti si scansavano per farle spazio, e lei arrivava con la sua luce che emanava da tutto il suo coraggio. che gran donna!
per lei sono suo figlio, quel figlio che la madre le ha proibito di tenere quando era ragazza perché con un inganno la fece abortire.
sorridendo, e guardando nel vuoto, andrea ci dice che forse ne avrà fatti un’ottantina col suo lavoro, ma quello lo voleva, era prima che facesse la vita; era innamorata.
ce lo racconta a mezza bocca, quasi per non farle del male; lui le vuole bene; hanno mille accortezze fra di loro e non per comodità, ma per complicità d’animo.
il silenzio si impadronisce di noi e il vino non serve a niente. anche il giorno si arrende ed il tramonto è il segnale che è tempo di tornare a casa. la saluto di lontano e lei mi fa ciao con la mano tirandomi un bacio. ci alziamo e ripercorriamo il vialetto, ma ora le pareti sono più bianche, sembrano una devozione; è uno strano effetto quello che sento dentro.
sto bene.
il cancello si chiude alle mie spalle;
prima o poi riconsegnerò le chiavi,
credo poi,
ma se le volete voi,
basta dirmelo.
di simonetta bumbi
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