se il cielo avesse potuto parlare, avrebbe detto che c’era il fuoco, lì sotto, al suo arrivo.
la stazione brulicava di gente, e la voce metallica annunciava partenze che lei non aspettava.
solo tre gradini, e lo avrebbe riconosciuto fra mille.
avrebbe usato quel suo istinto felino, quasi materno, di gatta. e come una gatta che lecca i suoi piccoli lo avrebbe leccato. avrebbe leccato le sue labbra, sì.
e lo fece, anche se non lo aveva ancora visto, leccandosele. sapevano di paura e impazienza.
un vento, arrivato da chissà dove, portò via le nuvole, e la terra scottava, e il cielo divenne molle come le sue gambe mentre scendeva dal treno.
l’indice sistemò gli occhiali sul naso, e con fare indifferente la mano soccorse il foulard che le stava scivolando dal collo, impaziente, anche lui.
le ore corrono come questo treno, e se dormo non penso, e se non penso arrivo prima, almeno lo spero. farfugliava, la sua mente, come fosse un giocoliere impazzito, ed era difficile far quadrare le idee. ma che follia è, questa. sono io? questa, sono io? e mentre pensava, guardava senza vedere le persone sedute nel suo stesso scompartimento, e non dava tregua alle sue gambe che accavallava con frequenza eccessiva, dovendo chiedere scusa continuamente a chi aveva di fronte.
– scusi, non ricordo bene, ma credo abbia la scatola marrone. –
non si può acquistare un profumo dando solo come indicazione il colore della confezione, lo sapeva benissimo, come sapeva che non glielo avrebbe mai potuto regalare, però sapeva che poteva sognare, ancora. la commessa si voltò a cercare, e sorrise, forse per rassicurarla. impacciata, sì, lo era, e terribilmente come il seno che sconfinava dal golfino al pensiero di lui e le mani, agitatissime le mani sistemavano i ricci che si ribellavano ai suoi bisogni. devi stare calma, si diceva. calma, stai calma, se lo ripeteva.
già, calma, ma lei non lo era affatto, perché tutto diviene regola profanata quando il proibito profana la mente e non c’è regola che possa contenersi quando hai la necessità di rincorrere ciò che vorresti, che vuoi.
e lei lo voleva, voleva prendersi una vacanza dai colori, da quel nero, il nero dei giorni, tutti uguali. e il tempo, che imbastiva funerali, continuava a cucire per lei un vestito che le stava divenendo troppo, troppo stretto.
partì, e prendendo quella decisione, si strappò le vesti da dosso.
città a rincorrersi con l’urgenza di arrivare, per vedere, e riposare gli occhi che avevano solo potuto disegnare sogni, sulla pelle. e la sua pelle sorrise, e fra le cosce solo il tessuto, ancora.
e il treno lasciava alle spalle i pesi e correva verso orizzonti da toccare.
tre gradini, e due mani gesticolarono.
e due mani gesticolarono, riconoscendosi i volti da molto lontano.
da lontano due volti si riconobbero, e lasciarono le mani gesticolare per ancora molto, e continuarono a farlo finché le loro labbra non si incontrarono.
e due labbra si trovarono, e due mani si strinsero.
e tenendosi per mano si avviarono, uscendo dalla stazione, verso un taxi.
via cernaia, dissero all’autista, e null’altro.
intorno a loro null’altro, solo un cielo sfacciatamente rosso.
di simonetta bumbi
foto: stefano cracco
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