Giuseppe Berto è una scoperta tarda, nella mia vita letteraria. Nella scuola dei miei tempi di lui si leggeva esclusivamente Il male oscuro, brillante esempio di monologo esistenziale scaturito dal lutto, dall’angoscia dello scrittore di fronte alla morte del padre. Senza nulla togliere alle opere di questo suo periodo psicologista, credo che nelle scuole si dovrebbero leggere anche altri suoi libri. Di sicuro i racconti, nei quali è abile a condensare storie accattivanti, in grado di coinvolgere il lettore e di creare un’atmosfera tangibile, in cui vivere, durante la lettura, come in un mondo parallelo. E, poi, c’è la sua ironia: sottile, caustica, efficace, raffinata, assolutamente irresistibile, che sia diretta agli altri od a se stesso. E’ facile intuirlo già nelle poche righe che Berto scrive nel presentare “E’ forse Amore“, la raccolta di racconti da cui è tratto il brano di questo nostro primo appuntamento con lui:
“Dopo la morte di Carlo Emilio Gadda, sono almeno venti gli scrittori italiani che ritengono in cuor loro d’essere, ciascuno, il più grande scrittore italiano vivente. Io sono uno di quelli. A sostegno della mia pretesa, che peraltro viene da più parti contrastata, pubblico ora questa scelta di racconti …”.
C’è spesso un fondo di autobiografia, nelle sue opere. Del resto il primo libro che lo rese famoso, al ritorno dalla prigionia negli Stati Uniti, seguita alla disfatta di El Alamein, fu “Il cielo è rosso”, coraggiosamente edito da Leo Longanesi.
Ed è, in parte, autobiografico, pur con l’ironico distacco narrativo che ogni suo scritto presenta, anche il racconto “Appuntamento a mezzanotte”, che narra di un amore giovanile sullo sfondo della guerra, e dà vita ad un eccezionale quadro delle urgenze personali che, come accade in ognuno di noi, superano di gran lunga quelle generali.
Giuseppe Berto: Appuntamento a mezzanotte
E’ l’estate del 1940. L’Italia è appena entrata in guerra. Il protagonista del racconto vive a Mogliano Veneto, paese di origine di Berto, meta di molti veneziani, costretti dalla guerra a lasciare le proprie case cittadine.
L’ironia di Berto non cede mai il passo, neppure al dramma. E’ sempre sottilmente presente a leggere la storia. L’esodo dei veneziani verso la campagna, per paura dei bombardamenti, è descritto come una sorta di improvviso risveglio alla realtà di costoro ed, al contempo, un risveglio alla vita per quel paese di campagna che, abbandonato un decennio prima in favore di Cortina d’Ampezzo e S. Martino di Castrozza, torna ad essere meta di villeggianti.
“I veneziani furono, in passato, grandi guerrieri e grandi conquistatori, ma poi, non se n’abbiano a male, decaddero. Quando fu chiaro, e fu immediatamente chiaro, che gli aeroplani nemici potevano con tutta comodità venire a sfiorare i comignoli delle loro case, i veneziani danarosi si affrettarono a cercare rifugio altrove. Siccome, con la benzina e le gomme razionate, era un po’ difficile andare avanti ed indietro da Cortina o da San Martino di Castrozza, molti ripiegarono, com’era già accaduto in passato, su più vicine località di campagna, concludendo che, in sostanza, eran meglio le zanzare delle bombe. A quel tempo il termine sfollati era già stato inventato, ma noi i veneziani sfollati preferivamo chiamarli villeggianti, sia perché ciò tornava a nostro decoro, sia perché essi continuavano, per quanto possibile, a fare la vita spensierata dei villeggianti di quindici o vent’ani prima, radunandosi un giorno in una villa ed un giorno in un’altra, per giocare a carte, conversare o ballare. Veramente, per ragioni di serietà bellica, non sarebbe stato permesso ballare, neppure in case private, ma, trattandosi di villeggianti veneziani, le nostre autorità chiudevano un occhio. Del resto, essi lo facevano con molta discrezione, cioè fra di loro, evitando di invitare la gente del luogo. I veneziani sono soliti considerarsi d’una qualità superiore a chi è nato in campagna. La cosa ci offendeva fino ad un certo punto: è noto, infatti, che, per essi, anche Parigi è campagna”.
In uno stile essenziale, pregno di uno sforzo di normalità non letteraria, Berto ci offre l’intero scenario del racconto in poche righe, non risparmiando al lettore descrizioni che, dietro l’ironia, celano amarezza.
La guerra, dunque, trasforma Mogliano Veneto in una Fenice e così il giovane animo del protagonista, che si apre all’amore.
E’ davvero pregevole il modo in cui l’Autore cristallizza il profilo dei luoghi, gli oggetti, le persone, con un tratto deciso ed al contempo delicato, sfiorando anche argomenti che non sempre è buon costume affrontare apertamente. Lui lo fa, invece. Parla di tutto ed, in questo modo, presenta personaggi tanto realistici da entrare in sintonia con il lettore, riga dopo riga.
La storia è semplice.
In quell’estate, a Mogliano Veneto giunge una facoltosa famiglia veneziana, i Bortoletti, composta da padre, madre e cinque figlie, la qual cosa, è ovvio, suscita l’attenzione dei giovanotti del luogo; un’attenzione che scema ben presto, visto che, tranne la più giovane, le ragazze Bortoletti sono tutte molto brutte: “Quattro erano brutte; una, però, era bellissima. Evidentemente tutti gli sforzi dei genitori Bortoletti per fabbricare femmine decenti s’erano concentrati in lei sola, a scapito delle altre”.
Il protagonista, ossia il giovane Berto protetto dal filtro della fantasia romanzesca, rimane folgorato da un’esplosione quasi dolorosa dell’amore, tipica dell’adolescenza, tanto che afferma d’essersi “atrocemente innamorato” e idealizza tanto la giovane Bortoletti da scrivere per lei ingenui versi d’amore, voci d’un moderno stilnovo, rendendola eterea, irraggiungibile.
Non riuscendo ad interagire con lei in nessun modo, decide di costruirsi da solo l’occasione. Inizia a frequentare la casa di un suo conoscente, Lollo, studente fuori corso di Legge che si diletta di teatro, il cui unico pregio è quello di avere il giardino confinante con i Bortoletti. Lo asseconda nel suo recitare, pur di avere libero accesso all’agognata siepe di confine, oltre la quale, finalmente, incontra l’amata fanciulla, Liliana, in un abito di organdis bianco e cappello di paglia. Si fa coraggio e le parla per qualche istante, il tempo di confessarle il suo amore e vederla fuggire in casa in lacrime.
Qui Berto crea una leggera suspense: quell’amore si presenta complesso, ma il motivo è oscuro. Lei non si indigna, non lo zittisce; si limita a pronunciare una frase enigmatica che rappresenta una chiave, la chiave per aprire virtualmente la porta della casa in cui vive, della famiglia in cui è nata.
Tipico di Berto. Nel suo scrivere è come se chiedesse aiuto ai particolari. La sua visione d’insieme presuppone sempre e comunque incursioni nell’infinitamente piccolo, per poi librarsi nuovamente in alto.
Poco tempo dopo la incontra di nuovo e le strappa la promessa di un appuntamento: a mezzanotte accanto alla siepe, tra i due giardini.
Si incontrano in segreto, dunque. Lei ha il volto coperto da un velo, ma lui ne intuisce la bellezza. Il dialogo si fa serrato e culmina in un bacio. Tuttavia il risveglio dalla passione di un momento non è dei migliori: egli si accorge, infatti, che non si tratta di Liliana, bensì di una delle sue sorelle.
Nel neorealismo sui generis di Berto si affaccia la psicologia. Inevitabile, a questo punto della storia. Quali dinamiche familiari sottendono lo scambio?
“Avessi saputo a quei tempi quali scherzi può combinare la spinta all’identificazione in persone d’insufficiente volontà e per di più dominate da strampalati complessi di colpa, non avrei certo patito come patii”.
Ecco l’altro aspetto del Nostro che emerge in quasi tutte le sue opere: la conoscenza come strumento di redenzione dell’anima afflitta. Sapere. Guardare i fatti dall’interno. E’ così che vive tutto, persino la guerra, nei suoi libri; la guerra dei grandi romanzi, come Il cielo è rosso, quella dei racconti, e quella dei resoconti, come Guerra in camicia nera.
Giunge l’autunno; muore l’estate e, con essa, l’ardore, la passione amorosa per Liliana, tanto bella quanto sfuggente. La pioggia lava via caldo e passioni, dunque. Almeno è quanto pensa il protagonista, il quale si sente pronto al distacco. Non è così, ovviamente. E’ sufficiente un secondo segreto convito notturno per farlo cedere. E’ Liliana stessa a sollecitare l’incontro. Egli acconsente, ma, giunti all’appuntamento, chiede la prova di trovarsi proprio di fronte a lei. L’ardore viene affiancato dalla razionalità: non vuole cadere nuovamente in errore, non vuole rischiare di corteggiare la sorella sbagliata. Dunque accende un cerino che, prima di spegnersi per il vento e per la pioggia, rischiara il volto di Liliana ed illumina la sua stessa anima che vi si riflette, come il protagonista de La città morta di D’Annunzio, quando solleva la maschera funeraria di Agamennone. Superomismo d’amore, potremmo definirlo.
Il dialogo tra i due pende verso il surrealismo, in un equilibrio perfetto tra l’assurdità delle cose dette e la marcata ironia con cui vengono narrate al lettore. Sublime. La fanciulla, che prima chiede all’amato di sposare sua sorella maggiore, avendola ormai compromessa con un bacio, infine si offre a lui anima e corpo, un corpo che il ragazzo rifiuta, chiedendole di riflettere meglio, di esserne sicura. Ma non è un gentiluomo di campagna come se ne trovano nei libri della Austen. No. E’ un impacciato ragazzotto che fa la scelta giusta quasi per caso, fors’anche pentendosene, e che agisce così più per incapacità di cogliere l’attimo che per convinzione.
Berto si diverte molto a destrutturare gli schemi morali, svelando piccolezze; a criticare, attraverso i suoi personaggi, ben altri individui, attraverso le loro storie, ben altre storie: “Se c’è qualcosa per la quale io non sono assolutamente nato, sono proprio questi avvenimenti apocalittici che capitano all’improvviso. Intendiamoci, sono capace di tutto, nella vita, ma mi ci vuole un minimo di preparazione: le gioie più grandi, come pure i delitti, devo covarmeli un po’ nella fantasia, prima di metterli in essere. E’ una tara, lo so, e chissà mai quale solida carriera avrei fatto, se non l’avessi avuta”.
Il loro convegno amoroso, dunque, è rinviato al giorno dopo. Tornano a casa, fradici di pioggia. Lui più di lei, visto che l’aveva protetta con il proprio ombrello. Fatalmente si ammala, è ovvio. Come comunicarle la sua involontaria assenza per il loro appuntamento d’amore? L’unica chance è coinvolgere Lollo, raccontargli tutto e chiedere la sua alleanza: a lui non sarebbe poi costato troppo scendere in giardino e parlarle, spiegarle il suo malanno, chiederle un secondo appuntamento.
Il disincantato Berto non salva neppure l’amicizia, però.
Lollo va all’appuntamento, ma per cogliere quel fiore al posto dell’amico. E va ben oltre: restio a confessargli cotanto tradimento, nei giorni seguenti finge di portare a Liliana i messaggi dell’amico, le sue poesie, ed, invece, come nel dramma di Rostand, se ne appropria per farne dono a Liliana spacciandole per sue. E sono versi romantici e delicati, perché è grazie ad essi che Liliana si innamora di Lollo, come confesserà al Nostro molti anni dopo. In qualche modo il teatro, di cui Lollo è appassionato, prende il sopravvento nella vita dei protagonisti del racconto: intrecci, intrighi, maschere, illusioni.
Berto sperimenta stili diversi nell’arco di un solo racconto: narrativa, poesia, teatro. Nella presentazione del libro, egli scrive: “Due sono le caratteristiche che ho mantenuto attraverso le mie quasi incontrollate evoluzioni: la felicità del narrare ed una vena di romanticismo che tenacemente si accompagna prima alle crudezze del neorealismo e poi allo humour dello psicologismo”. Nessun critico avrebbe potuto riassumere meglio la sua poliedrica arte.
Questo racconto è un delicato spaccato di vita, con le sue ricchezze e le sue miserie, con i suoi punti a capo, irrimediabili, che determinano il destino di ogni personaggio.
Assolutamente da leggere, come ogni riga scritta da Berto.
di Raffaella Bonsignori
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