L’arte del racconto è sublime: con poche pennellate verbali, viene narrata una vicenda e descritto l’intimo dei personaggi, viene racchiuso un intero universo.
In poche pagine si condensano fatti ed emozioni, pensieri e sentimenti. Difficilissimo mantenere il giusto equilibrio tra gli uni e gli altri. Non basta il dono della sintesi. E’ necessario che alla brevità si unisca la capacità di scrivere, altrimenti ci ritroveremmo di fronte a meri sunti di libri mai nati.
Scopriamo insieme, dunque, quest’arte ingiustamente desueta, attraverso una lettura critica di alcuni tra i più significativi racconti del Novecento italiano, in una retrospettiva dedicata ogni mese ad un diverso autore.
Lo spazio è tiranno, però. E’ mio compito indagare in poche righe l’essenza dell’opera, offrendo la mia chiave di lettura, nella speranza di stimolare molte altre interpretazioni e molti altri approfondimenti.
Carlo Cassola: Diario di campagna
A me il Cassola dei racconti non piace. A dire il vero piace poco anche quello dei romanzi, se escludiamo Il taglio del bosco, che ho amato molto, e La ragazza di Bube, nei quali si avvicina ad una prosa disincantata ma comunicativa, dove il dato storico affianca il dato sociale secondo gli schemi del neorealismo, sebbene sempre personalizzati, poiché è sua prerogativa non essersi mai inquadrato in nessuna corrente stilistica.
Che l’Autore non mi piaccia è una doverosa premessa al primo dei tre articoli di critica letteraria dedicati ai racconti di Cassola, poiché bisogna essere chiari sin dall’inizio, anche se l’obiettività, nella critica, viene sempre meno, ed è facile, dunque, cogliere partigianeria, nel bene e nel male.
Cassola non ama la letteratura che lo ha preceduto. Rifiuta gli schemi del romanzo di fine Ottocento e dei primi del Novecento; sostituisce all’eleganza della prosa uno stile secco, minimalista che esula da qualunque corrente letteraria, anche a lui contemporanea.
Il suo scrivere consiste nel ridurre i fatti al minimo con l’intento di usarli come trampolino per elevare i sentimenti dei protagonisti che li narrano, ma non sempre ci riesce. La rappresentazione dell’uomo coincide, in Cassola, con l’interpretazione del fatto, anche di quello storico, ma non sempre quest’intreccio emerge dai suoi racconti. Al contrario, egli abbandona spesso i fatti a se stessi: scarni, solitari, parti di un tutto non organico.
Il suo modo di scrivere, così usualmente si afferma, fa del quotidiano un’eccezione. Io non vedo eccezioni. Secondo me egli si limita a cercare inutilmente, nel gesto di ogni giorno, quell’aspetto rivelatore dell’esistenza del personaggio, una sorta di analisi, scritta e narrata, della sua interazione con l’ambiente che lo circonda, dal quale desumere carattere, idee, speranze, addirittura la panoramica storica. Come egli stesso ebbe modo di affermare, parlando della propria poetica: “Subliminare significa sotto il limite, sotto il limite della coscienza pratica. Così appunto stanno le cose: la verità poetica non appartiene alla coscienza pratica, ma alla coscienza che sta sotto, alla coscienza subliminare”. Il concetto, in sé, non è sbagliato, ma dovrebbe accompagnarsi ad un’introspezione che spesso non gli compete, esattamente come in questo racconto, nel quale trionfa il suo piccolo mondo di particolari, ma senza approfondimento; trionfa tanto da portare il lettore ad inseguire ciottoli e fili d’erba, perdendo la storia, ammesso che una storia ci sia.
Il vero protagonista è il casolare. Cassola, nel tornare da adulto nella sua casa di campagna, rievoca il brigantaggio di cui sentiva l’eco da piccolo e che, se lo affascinava di giorno, lo terrorizzava di notte, nella lunga, silenziosa e pur loquace oscurità di campagna durante la quale non si sarebbe mai avventurato nei boschi; rievoca i litigi con il fratello che incensava la fedeltà del cane ed accusava di egoismo il gatto, suo preferito; rievoca le passeggiate con il padre, che si trasformavano in un segreto quando, alla domanda della mamma su dove fossero stati, entrambi replicavano “non si dice”; rievoca una coppia di alberi, diversi eppure cresciuti entrambi sul ceppo marcito di un grande ulivo.
“Ma quando ti accorgesti che un noce ed un olivo erano germogliati sullo stesso ceppo, cosa pensasti? Perché non recidesti uno dei due?”
E qui mi sembra di ricordare che la risposta di mio padre fosse di compiacenza.
“Dissi: lasciamoli fare. Quando saranno più grandi, vedrò quale dei due convenga salvare: se il noce o l’olivo. Crescevano ed erano entrambe due belle piante. Di anno in anno rimandavo la decisione di sacrificarne una: finché mi accorsi che potevano anche convivere. Perciò, come vedi, feci bene a non intervenire e lasciar fare alla natura”
E’ l’unico brano del racconto che, secondo me, merita una qualche attenzione. Intanto per il dialogo, costruito perfettamente sulla saggezza e la modestia della figura paterna, con quel parlare privo di infiorettature e di discorsi indiretti. E, poi, per il bel significato che può attribuirsi a quella strana coppia di alberi. E’ una diversità che coesiste, la loro, che si accompagna e si rafforza a vicenda e che, oggi, potrebbe aprire la strada a molte considerazioni di politica o di bioetica, ovviamente estranee all’intento dello scrittore. Non può essere ignorata la filosofia che traspare dalla vicinanza di questi due alberi, una vicinanza forse accomunata, come dice il padre, dal fatto che entrambi danno l’olio, come a sottolineare che un’intesa può esserci solo laddove un punto di contatto esista, uno qualunque.
Il racconto prosegue con il ricordo di quando parava l’uva insieme agli altri ragazzi, di quando andava a racimolare le uova nelle case dei contadini e di quando iniziò a scrivere abbozzi di romanzi che i fratelli maggiori non mancavano di deridere, vuoi per l’ingenuità dello stile, vuoi per la povertà della storia.
Leggendo i suoi racconti c’è da pensare che sullo stile abbia lavorato un po’, rispetto ad allora, sebbene sia rimasto estraneo all’eleganza per cedere il passo ad una descrizione quasi fine a se stessa, particolareggiata, priva di emozione, una sorta di elenco di caratteristiche che spetta al lettore assemblare, scovando il non detto. Sull’elaborazione della storia, invece, il cammino dall’infanzia ai primi racconti è davvero breve, quasi inesistente. Il racconto di Cassola non è una storia, ma un abbozzo di realtà troncato senza preavviso. Ha un inizio, ma quasi mai una fine. L’arte di condensare una storia in breve, corredata di descrizioni, dialoghi ed approfondimento psicologico dei personaggi gli è estranea, diciamolo francamente.
di Raffaella Bonsignori
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