L’arte del racconto è sublime: con poche pennellate verbali, viene narrata una vicenda e descritto l’intimo dei personaggi, viene racchiuso un intero universo. In poche pagine si condensano fatti ed emozioni, pensieri e sentimenti. Difficilissimo mantenere il giusto equilibrio tra gli uni e gli altri. Non basta il dono della sintesi. E’ necessario che alla brevità si unisca la capacità di scrivere, altrimenti ci ritroveremmo di fronte a meri sunti di libri mai nati.
Scopriamo insieme, dunque, quest’arte ingiustamente desueta, attraverso una lettura critica di alcuni tra i più significativi racconti del Novecento italiano, in una retrospettiva dedicata ogni mese ad un diverso autore.
Lo spazio è tiranno, però. E’ mio compito indagare in poche righe l’essenza dell’opera, offrendo la mia chiave di lettura, nella speranza di stimolare molte altre interpretazioni e molti altri approfondimenti.
Emilio De Marchi – La gente inutile
Più che un racconto, è una critica che De Marchi sussurra al lettore, mentre, affacciato ad una finestra, da dietro i vetri della sua arte e della sua morale, osserva le vicende poco edificanti, che si animano attorno al Club dei Farfallini, frequentato dal “bel mondo”, o, meglio, dalla gente inutile: ricchi rampolli di illustri famiglie, annoiati dalla vita, che investono tutto il loro tempo in scostumate prove d’ammissione al Club, scherzi più o meno goliardici e becere prevaricazioni nei confronti di chi è meno ricco o, forse, semplicemente più debole.
Tale è zio Tek, al secolo barone Coriolano, il quale, in passato aveva vissuto con tanta intelligenza e probità da dilapidare la propria fortuna, facendo morire di crepacuore la moglie. Costui, ormai sostenuto solo da un modesto vitalizio, trascorre l’esistenza a fare comunella con il gruppo di giovinastri nullafacenti del Club dei Farfallini, con i quali, però, il rapporto è tutt’altro che amicale. Egli, infatti, vive un gigantesco complesso di inferiorità ed impiega tutti i suoi sforzi per farsi accettare dai Farfallini, ottenendo nulla più della loro conferma alle sue insicurezze, della loro fatale connivenza nel suo svilimento tipica d’ogni carnefice: come animali selvatici che fiutino sangue, i suoi giovani “amici” approfittano della sua debolezza e lo inducono a provare, ogni giorno, d’essere meritevole di trascorrere il suo tempo lì, tra loro, in quel bel Club che agli occhi di De Marchi e del lettore, è null’altro che una fucina di derelitti.
Ancora una volta assaporiamo la modernità degli scritti di De Marchi, o, quanto meno, l’immobilità di certi vizi dell’essere umano. Oggi si fa un gran dire di bullismo adolescenziale. Si è solo abbassata l’età, a quanto pare.
Ebbene, nel porsi da uomo in perenne ricerca di approvazione, zio Tek accetta l’ennesima folle sfida: è una buona forchetta, che, dunque, mangi dodici porzioni di risotto al termine di una cena! Sembra una sfida senza senso, come la maggior parte delle prove ideate da quelle sveglie menti prive di pensiero, ma è qualcosa in più, è una battaglia, una durissima battaglia che Tek ingaggia con se stesso, forse nel tentativo di rispondere alla più aspra, alla più cruda delle domande che lo affliggono, quella domanda che non vuole scoprire se egli meriti l’amicizia dei suoi falsi amici, ma se meriti di vivere.
Ed è con questa domanda nella testa che De Marchi ci accompagna a sbirciare nella sala del Club la sera della cena; una sala che brilla di argenti e cristalli, mentre i commensali rumorosamente si mettono a tavola, ridendo l’uno dell’altro. C’è anche il marchesino di Brienne, per l’occasione vestito da dama, vezzo che, al contrario di quanto accade nella sua quotidianità familiare di ristrette vedute, nel Club saltuariamente asseconda, non cogliendo, per ingenuità o, forse, per troppa saggezza, il fondo di cattiveria che muove il falso favore dei suoi amici.
La cena ha inizio. Pietanza dopo pietanza, vino dopo vino – fatale mistura per l’astemio Tek -, si avvicendano le diverse portate che precedono le famose dodici porzioni di risotto, servite come fosse sorbetto.
L’incalzare del racconto, ora, assume gli odori ed i sapori di quella cena. E’ come se De Marchi invitasse il lettore a tavola, tra gusto per il cibo e disgusto per la pantagruelica determinazione di andare fino in fondo a quella folle scommessa; in fondo alla grande ciotola che contiene le dodici porzioni di riso; in fondo al corridoio buio della debolezza che alberga nell’animo di zio Tek.
La scena si spacca. Un dualismo teatrale che piace molto a De Marchi; l’abbiamo incontrato anche in Carletto in collegio. Da un lato l’interno della sala, riscaldato, anzi infuocato dal camino, dalle calorie ingerite e bevute, dal vociare, dall’agitarsi, dal prendere vita di quell’assurda scommessa; dall’altra il paesaggio esterno, restituito dalle grandi vetrate della sala, dove, diafana, compare una città buia su cui cade la neve e nella cui ombra si leva la voce uggiosa di una donna che vende giornali, sola, infreddolita, affamata: un’esistenza agli antipodi rispetto alla dorata nullaggine dei Farfallini. Ma è davvero nel buio e nel freddo che si annida la disperazione? Non è, forse, il paesaggio degli “umili”, apparentemente poco invitante, a racchiudere, invece, la libertà d’essere se stessi, senza l’obbligo di provare d’essere meritevoli della deplorevole attenzione di piccole menti ed ancor più piccoli uomini?
Zio Tek inizia a mangiare il suo risotto. Dapprima è baldanzoso, poi sempre più stanco, ingolfato di cibo, mentre gli amici lo osservano in silenzio “con quella muta avidità e crudele curiosità con cui gli speculatori inglesi assistono alle lotte dei galli”. Amici, parola davvero immensa per quel manipolo di crudeli nullafacenti. Di sicuro sono persone pronte a vederlo morire.
Ed ecco che il cibo si trasforma in nemico, mentre Tek lentamente scende nel suo inferno personale, in un buio fatto di mancanza di respiro, di sforzo sovraumano, di confusione mentale. Inizia a far cenni d’assenso all’aria, come in risposta ad inudibili domande di invisibili persone. Inizia a piangere: il corpo si ribella.
E’ di Brienne che interviene, fatal caso l’unico, che, al pari di Tek, conosce il peso del desiderio inappagato d’essere accolto per la sua vera essenza; l’unico che fronteggia la falsa accettazione degli amici ed il rifiuto dei familiari e, doppiamente tradito, indossa le sue maschere con tutti, maschere capaci, come per l’Enrico IV pirandelliano, di dargli forza nella sua apparente debolezza. Sì, è lui a risolvere l’intreccio. Di proposito? Per errore? De Marchi ci dice solo che mette i suoi sovrascarpe di gomma sui carboni ardenti del paniere, spargendo un insopportabile lezzo. Improvvisamente si spalancano le grandi finestre e tutti fuggono fuori, nella neve, in quel paesaggio lunare che solo pochi minuti prima sembrava così distante; al contempo la bufera entra a soffiare sui lumi della sala imbandita. Un’osmosi prepotente che riunisce i due mondi contrapposti tratteggiati dal De Marchi, sanando la sua tipica spaccatura scenica e rappresentando un ritorno alla realtà, per quel drappello di bighelloni senza arte, né mestiere; e nella realtà le persone non si suicidano mangiando pur di vincere una scommessa, né gli amici le istigano a farlo.
Quell’orribile, nauseante odore chiude la scommessa, incapsulandola in una dimensione onirica, e chiude il racconto, accompagnato dall’osservazione secca e pur loquace del De Marchi, che narra in sette parole non solo quanto accade, ma quanto accadrà: “Zio Tek non è morto: anzi prospera”.
di Raffaella Bonsignori
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