In questi giorni sta andando in scena a Roma il processo “Cucchi bis” e finalmente sta emergendo (forse) definitivamente la verità; quella che la famiglia di Stefano, il giovane geometra romano morto dieci anni fa in circostanze non ancora del tutto chiarite, dopo essere stato arrestato per un presunto possesso di droga, reclama a gran voce da sempre.
Merito del coraggio di una giovane donna, la sorella Ilaria, che non ha mai accettato le “verità ufficiali” e non si è arresa di fronte alle difficoltà, alla sofferenza e agli attacchi di sciacalli e mestatori. Ma anche del senso dello stato e della giustizia di un grande magistrato come il Procuratore di Roma Giuseppe Pignatone con la sua squadra di giovani giudici. E, pur se in ritardo, del coraggio di due giovani carabinieri che sfidando il sistema, l’ambiente, le convenzioni, i superiori e mettendo a rischio carriera, posto di lavoro e vita, hanno deciso di parlare, di raccontare tutto.
La verità, nient’ altro che la verità. Che piano piano incomincia a emergere, a farsi largo tra la melma dei depistaggi, delle bugie, delle soffiate false, delle ricostruzione di comodo e dei “non ricordo” che sono stati la narrazione di una storia oscura trascinatasi per due lunghi lustri. Quella che una comunità civile composta da persone per bene, amici del quartiere, associazioni, artisti, giornalisti e avvocati ha protetto, non lasciando che la faccenda di un “giovane drogato anoressico” , come Stefano è stato più volte apostrofato da “illustri” uomini delle istituzioni, finisse nel dimenticatoio, nel buco nero delle tante storie maledette delle quali è lastricata la strada di questo paese .
Merito forse di quelle scioccanti gigantografie esposte da Ilaria di fronte al tribunale con l’immagine del fratello morto, con il corpo gonfio, violaceo, con la schiena spezzata e gli occhi pesti, sul quale autorevoli uomini delle forze di polizia hanno giurato e spergiurato di non aver mai inferto, di non essersi mai accaniti. Accusando prima i medici che lo presero in cura e poi gli operatori carcerari dai quali lo portarono quand’ era ormai morente.
Oggi sappiamo che le cose non andarono come ci hanno raccontato per anni i carabinieri della Compagnia Appia di Roma, sostenuti da una parte dei dirigenti del Comando generale che avvallò la mole di bugie e di menzogne riportate nei verbali contraffatti. Stefano fu ucciso, questa è la verità che sembra filtrare dal processo in corso. Sta emergendo che probabilmente morì a seguito o come conseguenza delle botte, dei calci e dei pugni che anche se non intenzionalmente ma in modo lucido, qualcuno gli inflisse, ha raccontato Riccardo Casamassima, il primo carabiniere che ha avuto il coraggio di parlare, seguito due giorni fa dalla drammatica testimonianza dell’altro giovane militare allora presente, Francesco Tedesco. Il primo, demansionato dal suo incarico operativo a quello di “usciere”, il secondo, sospeso dal servizio in attesa di chiarimenti. Su cosa non è dato saperlo. Due provvedimenti punitivi? Cautelari? Necessari? Certamente non opportuni, che stridono e non rendono del tutto sincera la lettera di scuse che il Comandante Generale dell’Arma, generale Nistri , ha inviato alla famiglia Cucchi.
Il mitico Capitano Ultimo, anch’egli per un periodo calunniato e vessato, nonostante il passato e un curriculum di servizio integerrimo, in un’intervista recente ha affermato che quelle scuse non bastano e che i vertici dei carabinieri si sarebbero dovuti dimettere per rendere credibile il “pentimento” e rimediare in parte agli errori commessi. Nessuno però lo ha fatto spontaneamente e nessuno degli uomini politici che guidano le istituzioni lo ha chiesto o preteso com’era doveroso e auspicabile che facesse. Non il Presidente del Consiglio Conte, non la Ministra della Difesa Trenta, né tantomeno il Ministro dell’Interno Salvini.
Ci aspettiamo ora che il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, garante dello Stato e della Costituzione, prenda in mano la questione e porga le scuse a nome e per conto degli italiani alla famiglia di Stefano e magari assegni un riconoscimento a quei tutori dell’ordine che hanno avuto il coraggio di squarciare il muro di omertà che ha oscurato per tanto tempo questa tragica e vergognosa vicenda.
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