Ci scrive Antonella F. da Verona, sollecitata dalla lettura dell’articolo “Sesso, bugie e… politica” qui pubblicato lo scorso 16 marzo, per chiedere, sulla base della mia esperienza statistico-forense, in quanti casi la vita sessuale della coppia sconfina in atti di violenza all’interno delle mura domestiche e se ci sono sanzioni previste anche quando il “violentatore” è proprio il marito, ovvero colui che aveva promesso in forma solenne amore, rispetto e assistenza senza termine.
Orbene, i casi in cui le mogli o le compagne di vita in convivenza si rivolgono al giudice penale non sono così rari come si vorrebbe credere; difatti il marito compie sempre un atto di violenza quando obbliga la moglie al compimento di rapporti sessuali, anche se il rifiuto di lei non è palese.
Vero è che infatti che dal matrimonio discendono gli stessi diritti e doveri per entrambi i coniugi, ma non si può escludere la sussistenza un preteso e ingiustificato diritto del coniuge al compimento di atti sessuali che si svolgono senza affettività, bensì come sfogo di un crudo ed anaffettivo istinto sessuale che si manifesta contro la volontà del partner.
Sul piano della tutela in senso stretto, un po’ diversa è la condizione delle coppie non sposate o unite civilmente, non vincolate dall’obbligo di fedeltà come nel matrimonio, che però sono sempre titolari del diritto di poter sporgere denuncia per violenza a sfondo sessuale.
Nel matrimonio, situazioni di detto tipo si verificano se i rapporti sessualiavvengono in contesti di crisi di coppia in atto e che sono l’espressione di una vita di coppia ormai infelice, connotata da sopraffazioni e infedeltà, ovvero esattamente l’opposto dei sentimenti di affetto coniugale, stima e reciproca solidarietà ove il rapporto sessuale – al di là della giuridica connotazione di “dovere” – si pone come una delle tante espressioni della vita in comune.
Focus: Corte di Cassazione penale, sentenza 5 ottobre 2015 n. 39865
Proprio in questo senso si pronunciò la Suprema Corte con una motivazione particolarmente articolata, così avviando i criteri generai di una lunga serie di casi.
Fatto
La Corte rigettò il ricorso di un marito condannato in secondo grado a tre anni e nove mesi di reclusione per i reati di maltrattamenti in famiglia e di violenza sessuale nei confronti della moglie, peraltro scagionato anche dall’accusa di lesioni personali soltanto per tardività della querela; nei fatti, l’ambivalenza di lui, combattuta dalla moglie tra un difficile e continuo atteggiamento di amore-odio-indifferenza, si consumava nella reciproca accusa di aver trascurato la famiglia e di volersi quindi divertire in altre relazioni sentimentali.
Diritto
E’ stato ritenuto logico e corretto, quindi confermato dalla Cassazione, l’argomento della corte territoriale secondo la quale “…l’episodio di violenza, isolato sotto il profilo temporale, doveva considerarsi vero e non soltanto verosimile, in quanto sganciato da una relazione sessuale ordinata o se si vuole, discontinua, ma pur sempre presente nella vita di coppia.
Il reato contestato al marito (art.609 bisdel codice penale secondo cui “Chiunque con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni) non è stato escluso per il fatto che la moglie, pur non opponendosi in maniera palese ai rapporti sessuali, li ha subìti passivamente.
Dalla lettura dell’articolo di legge appena richiamato, risulta subito evidente che la sessualità deve essere intesa come espressione significativa della libertà personale in termini di piena autodeterminazione nel voler collaborare col partner al compimento di un atto di natura sessuale.
E’ infatti risultato chiaro che il marito, il quale aveva posto in essere violenze e minacce contro la moglie in un contesto di continue sopraffazioni e umiliazioni, aveva la piena consapevolezza dell’implicito rifiuto da parte della donna che era ormai degradata, deprivata di ogni dignità e ridotta aconiuge-vittima del compimento di atti sessuali violenti da parte dell’uomo.
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Con l’occasione, è utile fare un breve cenno all’ipotesi di possibile prossima legiferazione sanzionatoria del revenge porn, locuzione che letteralmente si traduce in “vendetta porno”, che si concretizza – come nel caso attuale di cronaca che vede appunto coinvolta la Deputata grillina Giulia Sarti – con la pubblica condivisione di immagini o video intimi tramite i mezzi on linesenza il consenso del protagonista di essi.
A cavallo tra l’abuso psicologico, la violenza domestica o lo stesso abuso sessuale, l’azione così denominata, riferita all’uploaddel materiale sessuale esplicito, viene utilizzata a scopo ritorsivo per vendette personali maturate in maniera poco sana dopo la fine di una relazione.
Difatti, la diffusione avviene all’esclusivo scopo di umiliare la persona coinvolta, in quanto le immagini sono spesso accompagnate da informazioni idonee ad identificare il soggetto ritrattato o filmato, attraverso il nome, la posizione geografica, l’indirizzo domestico e lavorativo.
Notoriamente, a seguito di diversi casi di cronaca legati a questa pratica immorale e strutturalmente illecita, già in alcuni paesi come la Germania, il Regno Unito, il Canada, Israele, l’Australia e la maggior parte degli Stati Uniti sono stati assunti provvedimenti volti a prevenire e contrastare il fenomeno; in Italia, auspicabilmente, ci si augura l’intervento di una normativa penalmente rilevante, essendo notoriamente avvenuti casi di gravi violazioni di legge, non solo di privacy, diffamazione e molestia, ma anche di fattispecie più gravi come l’istigazione al suicidio che si è poi tristemente consumato.
Fonte foto: Shutterstock
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