É un privilegio guardare la guerra dal lato sicuro e fortunato di uno schermo. È quasi “troppo”, quasi da ingrati.
Radi condivide in tempo reale tutto ciò che vive: sono i massacri di Idlib, città a nord-ovest della Siria, in cui vive da ormai 8 anni. Il web ci ha permesso di incontrarlo e di poter virtualmente aprire una finestra sulle strade della sua città, ultimo teatro della guerra siriana.
Dietro il sipario ci si ribella alla guerra
Radi ha più volte tentato di attraversare il confine per raggiungere la Turchia. «I confini sono serrati. Se farò un altro tentativo, dovrò essere certo di riuscire questa volta, e non è adesso il momento».
Radi è solo un ragazzo poco più che trentenne, uno dei tanti “resistenti”, costretto oggi a vivere una guerra che non ha voluto. Sì è improvvisato reporter per documentare l’indicibile, a costo della propria vita tiene aperti piccoli sipari su giganti crudeltà, prima che questi si accartoccino per sempre su loro stessi.
«Vivevo ancora a Damasco nel 2011, insieme alla mia famiglia, anno in cui ebbero inizio le manifestazioni contro il regime di Assad. Questi non tardò a rispondere con la forza reprimendo i dissensi. Lasciai la mia città e mi spostai a Idlib, era il 19 gennaio 2012. Fino a due anni fa le cose erano leggermente meno terrificanti qui, diverse città erano ancora fuori dal controllo del regime, ad oggi invece Idlib resta l’ultima roccaforte delle opposizioni anti-Assad. Damasco è ormai una città sicura poiché sotto il suo controllo e quello della Russia. Mia mamma e mio papà vivono ancora là, sono troppo anziani per poter affrontare un viaggio; a me resta impossibile raggiungerli, vorrebbe dire fare ritorno da ribelle, vivere da cittadino sorvegliato e senza diritti, quando hai la fortuna di restare vivo».
Solo una parte, non sempre vera, della realtà
«Le foto e le riprese sono solo una parte della realtà», Radi ci tiene a ricordarci il concetto più e più volte. Il suo profilo facebook viene periodicamente bloccato, troppi contenuti violenti. Sangue, macerie, buche scavate dai missili, gli organi ancora in vita in quel che resta del corpo di un ragazzo che neppure riesce a morire.
Eppure quei corpi dicono tutto. Cos’altro dovremmo vedere oltre alla morte, prima di porre fine a tutto ciò?
Così, mentre si tenta di preservare l’integrità ed il rispetto per la morte, la censura fa sì che si possa tuttavia continuare a chiudere gli occhi sul mondo.
Come si fa a rimanere vivi dopo 8 anni di guerra?
É appena arrivata la notizia dell’ennesimo attacco aereo, 40 militanti hanno perso la vita. Molti civili stanno lasciando Idlib. Radi ci scrive più tardi, è al sicuro.
Eguali una all’altra in modo monotono eppure imprevedibile, le sue giornate si susseguono all’incirca così: tenere traccia degli aerei e dei bombardamenti; individuare nuovi nascondigli, rifugiarsi in quelli che hai già setacciato se sai che presto bombarderanno, scappare se stanno bombardando e appena possibile raggiungere il rifugio più vicino; fare filmati, foto, documentare per poi condividere il tutto nei canali multimediali, inviare il materiale alle redazioni.
«Non sono un giornalista né un fotografo, solo un siriano trasformato in reporter dalla guerra che vivo. Ero solo un ordinario cittadino che ha lasciato la propria città ed è venuto a vivere qui per sottrarsi alla guerra. Tutto il mondo ci considera ribelli perché viviamo ad Idlib, la città della resistenza; la realtà è che siamo costretti a resistere, per mantenere integre le nostre vite. Io odio questa guerra, ha scavato una fossa nel cuore di tutti».
“Essere ancora vivo, potermi raccontare, a volte lo credo un miracolo” (Radi)
Gli aiuti non sono costanti e possono raggiungere Idlib solo attraverso il confine turco, pertanto a volte le provviste arrivano, molte altre no. «E’ troppo pericoloso spingersi fin qua, anche per le organizzazioni umanitarie. Quel che riceviamo lo dobbiamo comunque a loro, in particolare ad un ente di beneficienza che porta cibo, acqua ed assistenza agli sfollati». Si tratta di un’organizzazione non-governativa siriana registrata nel Regno Unito, in prima linea nella fornitura di aiuti in Siria sin dall’inizio del conflitto, il cui acronimo – HIHFAD – sta per “Hand in hand for aid and development” (Mano nella mano per l’aiuto e lo sviluppo).
«Ogni tanto penso agli sconosciuti che da qualche parte del mondo si preoccupano di inviare soldi e provviste ad altri sconosciuti come, io li ringrazio per questo. Credo sia scioccante anche solo provare ad immaginare come qualcuno possa ancora vivere in un posto come questo, a Idlib, sotto le macerie, dove i negozi sono stati sventrati dalla fame e dal freddo dei sopravvissuti. Eppure qualcuno ancora c’è, non sei portata anche tu a pensare si tratti di un miracolo?»
Voci dal web, sul fronte della resistenza
«Il mondo intero sa cosa sta accadendo, cosa ci stanno facendo, ma nessuno è interessato. Il resto del mondo vive lontano da qui, non vede, non sente» (Ahmed)
«O mondo, non essere l’alleato dei crimini odierni» (Hamad)
«Siamo vittime di attacchi aerei e dei vostri confini chiusi. Le nostre città sono santuari, ridatecele» (Imran)
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