Perché, cosa sognano i pesci rossi?
Giordano Bruno una volta scrisse: “Pochissimi sono veri medici, ma quasi tutti sono veri ammalati”. L’avvento della nostra era ha scombussolato parecchi meccanismi sociali: tra questi, di sicuro, c’è quello legato all’etica dei lavori cosiddetti missionari, ritenuti un tempo lodevoli e sinceri ma diventati oggigiorno effimere occasioni di guadagno, meri mestieri poco empatici.
Bisogna partire proprio da quest’ultimo termine, “empatia”, per capire bene il senso di “Cosa sognano i pesci rossi?” di Marco Venturino. Il lettore percorre le strade di questo libro crudo, incredibilmente drammatico, osservando due cigli contrapposti: quello dell’ammalato e quello del dottore. Tutte le 245 pagine di quella che è a tutti gli effetti una storia vera, pur non essendone tratta, ruotano attorno all’empatia, a quella delicatezza e sensibilità peculiari all’essere umano che gli permettono di immedesimarsi nei propri simili, di immaginare e quasi vivere le loro emozioni pur non avendole mai provate sulla propria pelle. È un continuo tuffarsi nelle sensazioni, in questo caso esclusivamente di dolore, dei protagonisti. Così, il medico anestesista Luca Gaboardi, una vita distrutta e infelice, si immedesima quasi per inerzia nelle incredibili sofferenze del paziente Pierluigi Tunesi, amministratore delegato di una grande multinazionale, costretto in un letto d’ospedale da una complicazione post-operatoria, lui incapace di immedesimarsi nei problemi di nessun’altro, tanto grande è il peso della sua sopportazione. Il lettore, dal canto suo, si immedesima in entrambi, grazie allo stile scrittorio dell’autore, non a caso anestesista presso l’Istituto Oncologico di Milano, vivendo a capitoli alterni i traumi del paziente e i disagi del medico. Perché, quindi, leggere “Cosa sognano i pesci rossi”? Perché contraddice Giordano Bruno e tutti quelli che la pensano come lui, perché dimostra che un medico (Venturino) può descrivere con maestria ciò che prova un malato terminale, perché rende evidente quanto chi sta meglio possa in realtà stare peggio e viceversa, perché è un ritratto incredibilmente reale del confine che separa la vita dalla morte, confine tanto sottile da non far distinguere chi vive e chi muore, chi soffre mentre campa e chi soffre mentre smette di farlo.
LA TRAMA
Pierluigi Tunesi, quarantacinquenne amministratore delegato di una grande multinazionale, ha una moglie che lo ama, una figlia adolescente, amici ricchi e potenti. Un uomo dalla vita brillante e con una carriera di successo. Luca Gaboardi ha quarantacinque anni, un matrimonio fallito alle spalle, nessun figlio e pochi amici, oltre a un lavoro che non ama e il vizietto dell’alcol. Due esistenze diverse, che scorrono su binari paralleli, ma che si incontrano nel reparto di Terapia Intensiva di un ospedale milanese, quasi per uno scherzo del destino: là dove Luca lavora come anestesista, Pierluigi viene ricoverato dopo una complicazione post-operatoria. Accanto alle vicende dei due, si snodano quelle di un intero reparto ospedaliero, un mondo brulicante di vita e di morte, fatto di tanti spettatori e pochi attori. Pierluigi è uno dei pesci rossi, i componenti del reparto, i malati, che nuotano tra la vita e la morte in quella immensa vasca. Ed osserva quello che lo circonda, mentre il tempo scorre inesorabile e le macchine, “una serie di fili e cavi che lo legano al mondo”, lo tengono in vita chissà per quanto ancora. Luca disprezza tutto di quel mondo, ma non trova il coraggio di opporvisi e ribellarvisi, e osserva con cinismo il teatro del potere dei suoi superiori. Tra i due si instaura un legame invisibile che può esprimersi solo attraverso lo sguardo ma che permetterà ad entrambi di scoprire molte cose, su sé stessi e sul senso della vita e il non senso della morte.
Il giorno della diagnosi è un po’ come sentir bussare alla porta… “toc toc, buongiorno, sono la Morte, molto piacere. Ma come, non sapeva che dovevo arrivare?” “Ma no” provi a rispondere, “aspetti un momento, cominci ad andare avanti…poi arrivo, solo un attimo…” eccetera eccetera. Insomma, dopo quel bussare non sei comunque più lo stesso, ma sei ancora molto differente da quello che diventi quando sei qui.
Io prima ero vivo e sapevo di dover morire, adesso so sempre di dover morire ma non penso di essere davvero vivo.
Abbiamo fatto tutto quello che si poteva: una frase che dice tutto senza dire nulla. Perché quello che, ormai da tempo, non mi è più chiaro è: chi stabilisce quello che si può, che si deve e non si deve fare? Chi traccia il confine tra quello che è lecito fare e quello che è eccessivo?
Insomma, le parole non sono tutto. I pesci, infatti, non parlano ma, ormai ne sono sicuro, sanno benissimo cos’è l’amore.
Conosco la solita domanda: “Perché è successo?”. Ma non conosco la risposta.
COS’E’ “COSA SOGNANO I PESCI ROSSI”?
È un pugno. Ci sono cose che non conosci, nel senso più ampio del termine, e che per questo non comprendi né tantomeno immagini. Finché qualcuno, come Venturino, te le schiaffa in faccia. E ti senti soffocare. L’effetto di Cosa sognano i pesci rossi è più o meno questo. Un ospedale, una malattia, un malato, un medico, la morte. Dopo questa lettura cambierete idea in merito a tutto questo e in merito al loro grande, forse incomprensibile significato.
di Antonio Fioretto
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