Io non ho ancora ben capito perché Paolo Sorrentino, che ha 45 anni non ancora compiuti, ci tenga tanto a fare il vecchio. Lo ha fatto, indirettamente, ne “La Grande Bellezza”, attraversando il film con l’andatura dinoccolata e dandy di Jep Gambardella-Toni Servillo. Lo fa in questo “Youth – La giovinezza”, sdoppiando la narrazione nelle vicende di due anziani pensionati, Michael Caine e Harvey Keitel, che in una clinica di riposo in montagna in Svizzera, che sembra molto, e forse è, quella che ispirò “La montagna incantata” di Thomas Mann, riflettono sugli anni della loro vita ormai trascorsi.
Ma forse un motivo c’è: il vezzo di sentirsi “agé”, almeno attraverso il cinema, la voluttà di poter dispensare massime di vita dall’alto di un’età non anagrafica ma virtuale. Che dire, a ciascuno il suo stile, anche esistenziale, per bislacco ed eccentrico che sia. Poi a livello artistico questa tendenza può anche portare i suoi frutti. E li ha già portati. Con l’Oscar dello scorso anno.
E infatti agli americani effettivamente piace il regista europeo che parla di decadenza e che ha addosso una leggera patina di vecchiume. E’ come ci immaginano: vecchi, saggi e anche un po’ disorientati. Immaginano così anche gli europei giovani. Li rassicura vederci così, e Sorrentino questo forse lo ha capito, ci gioca su, e gioca al gioco che gli riesce meglio, che gli è più congeniale, riuscendo a coinvolgere nel gioco anche i suoi spettatori più ammirati ed entusiasti. Che è quello che conta.
Dunque la storia di due anziani in montagna: uno (Caine) direttore d’orchestra in pensione accompagnato dalla figlia-assistente (Rachel Weitz), l’altro (Keitel) regista alle prese con l’ultimo film, che dovrebbe essere il suo testamento spirituale. Intitolare una trama così’ “La giovinezza” è già una prima provocazione. Quindi non ci viene risparmiato niente di quello che ci si potrebbe aspettare da una narrazione ambientata in una clinica per anziani: corpi senili, seni flaccidi e cadenti, andature zoppicanti e saune con gente più o meno malandata, sempre ripresa però con grandi ottiche e prospettive magniloquenti. Questi spunti li troviamo, a livello germinale, già in Fellini, nella scena delle terme di 8 ½, dove il protagonista ha il primo contatto con la percezione della sua involuzione creativa. Ma andiamo avanti.
A gironzolare nella clinica c’è anche un ex-campione di calcio argentino, obeso e acciaccato, che però non rifiuta il contatto con i fans, sotto gli occhi stupefatti degli altri ospiti. D’altra parte Sorrentino, durante la cerimonia degli Oscar, aveva pubblicamente indicato come suo nume tutelare, oltre a Martin Scorsese e ai Talking Heads, anche Diego Armando Maradona, e qui gli fa un tributo diretto, apparentemente ossequioso ma in realtà un po’ ribaldo, mascalzone e irriverente.
Dunque la storia di due vecchi. E già qui siamo in controcanto rispetto agli standard del cinema statunitense, che glorifica i corpi giovani, atletici e ben tenuti. Qui abbiamo l’apologia del decrepito e dello scadente, se non dello scaduto. Ma abbiamo detto che gli americani amano chi, specie europeo, tende a far loro il verso. E sappiamo quanto Sorrentino tenga conto degli americani (non del pubblico, ma dei critici) quando fa un film.
La storia di due vecchi ripresa dunque in modo magniloquente. Un pezzo di bravura, un assolo cinematografico con i tratti del virtuosismo narcisista. Già negli anni ’50, il critico d’arte Gyorgy Lukacs aveva messo in guardia, prima ne “La distruzione della ragione” poi nei “Saggi sul realismo”, sui rischi di un’arte che perdeva il contatto con la realtà. Il critico ungherese metteva all’indice quelle forme artistiche che tendevano ad annullare il valore costruttivo dell’arte, la spinta a edificare testi basati sull’estetica del razionalismo e del rapporto causale, in virtù di una estetica irrazionalista, decadente, vaticinante, viscerale, ctonia. In questo tentativo, è vero, incappava in clamorosi errori, come condannare in blocco le opere di Marcel Proust, di Joyce, Schonberg, Kafka e così via. E dava involontariamente il via a quello che sarebbe poi stato chiamato zdanovismo, il realismo socialista, che avrebbe schiacciato l’arte in una prospettiva naturalista, puramente descrittiva, quando non allineata al regime e alla politica dei Soviet. Ma allo stesso modo poneva la questione in termini giusti. Pestava su un tasto fondamentale per la critica moderna: la deriva dell’arte occidentale, che non è più descrittiva della realtà, ma delle ossessioni dell’autore, non più occhio esterno sul mondo, ma occhio interno sulle distorsioni percettive di chi crea, facendo passare queste distorsioni per virtù “autoriali”. E’ il germe che affligge tutta l’arte occidentale di oggi, a partire da Cezanne, passando per Picasso in avanti.
Ora, senza scomodare questa critica colta e accademica, Sorrentino fa un po’ lo stesso percorso. Abolisce il valore costruttivo del testo, e si abbandona a un estro istintivo, momentaneo, al colpo d’occhio, all’immagine slegata dal contesto, icastica, provocatoria. Ma cosa ci lascia questo carnevale di colori, questo caleidoscopio rutilante, questa grande bolla di sapone cinematografica che scoppia e scompare appena si sono riaccese le luci della sala?
Anche altri autori lavoravano così, lo stesso Federico Fellini, altro nume tutelare nominato da Sorrentino durante la gloriosa notte degli oscar 2014, lavorava un po’ con queste modalità. Ma lavorava con queste modalità soprattutto nella seconda e ultima parte della sua carriera, quando, pur componendo opere di alto livello, aveva forse esaurito la sua spinta propulsiva autoriale e anche la volontà di comunicare col pubblico. Si era un po’ trincerato dentro se stesso e dentro le sue ossessioni. E poi il percorso di Fellini aveva radici lontane, tutto il suo apprendistato si era svolto nel solco e all’ombra di maestri del neorealismo come Roberto Rossellini. Aveva assimilato un metodo di lavoro e di concezione del prodotto cinematografico basato sul realismo e sul costruttivismo narrativo, e questo, anche nelle sue opere più tarde, oniriche e fantasiose, traspariva molto chiaramente.
Invece Sorrentino ha radici diverse, molto più personali e da autodidatta, il suo cinema ha sempre avuto un fondo irrazionalistico e basato sul gusto dell’immagine per l’immagine, sulla sceneggiatura come, in fondo, puro pretesto per la restituzione allo spettatore di belle forme sceniche e suggestiva fotografia.
Il cinema, alcuni diranno, è questo, pura forma. Ma Lukacs non sarebbe stato d’accordo, e ci permettiamo di dire che, ancora oggi, non ci sentiamo di affibiargli tutti i torti. Anche perché dopo cosa farà Sorrentino: continuerà per tutta la sua carriera a fabbricare bolle di sapone? O forse il pubblico, e anche la critica, che è il suo punto di forza e il suo nerbo, potrebbe voltargli le spalle fra un film e l’altro, fra un pezzo di bravura e il successivo?
Il direttore d’orchestra di Sorrentino-Caine litiga e fa pace con la figlia, dirige la sinfonia dei muggiti di una mandria di mucche lungo una vallata svizzera, rimembra il suo passato e i suoi cattivi comportamenti nei confronti della moglie. Il regista-Keitel organizza il suo nuovo film con i suoi assistenti che lo idolatrano, si becca il rifiuto da parte della anziana star ormai decrepita e che fa sfoggio di tutto il suo cinismo, il suo turpiloquio e la sua coprolalia (Jane Fonda).
Lo stile di Sorrentino è, l’abbiamo detto, impostato sull’eccesso, squisitamente flamboyant come suo solito, ma, sempre come suo solito, con il rischio perverso e anche un po’ voluto, di girare a vuoto. E infatti il film gira un pochino a vuoto, anzi parecchio. Ma, come ripetiamo, c’è a chi piace tutto ciò. E di fronte a questo noi alziamo bandiera bianca. Noi abbiamo l’impressione che Sorrentino bluffi, che faccia finta di essere avanti, ma in realtà rielabori cose fatte mille volte da altri, con in più una buona dose di spericolatezza e faccia tosta. Ma questo a molti piace, e quindi noi alziamo bandiera bianca.
Tutta la retorica sulla vita-che-imita-il-cinema, tutti i suoi assi buttati giù alla rinfusa, lasciando tuttavia trasparire l’idea che sia tutto previsto, tutto ben congegnato. Effettivamente sono cose che danno un po’ fastidio. In più nel finale ci infila anche la cantante lirica orientale, quando, in una scena forse non realmente avvenuta, il direttore d’orchestra si decide ad esibirsi con la sua orchestra davanti alla regina Elisabetta, perché oltre agli americani, il film va venduto anche nelle lontane contrade dell’estremo oriente. Tutto bene, tutto ben fatto.
Inoltre alla fine scopriamo che il film ha avuto l’avallo e il finanziamento del Ministero dei Beni culturali. Ora, se neanche Paolo Sorrentino che insieme a Matteo Garrone sono i nostri registi moderni e di punta, se neanche lui vuole, o forse non può, fare a meno dei finanziamenti pubblici per fare un film, ciò getta una luce piuttosto plumbea, a prescindere dai premi e dai riconoscimenti internazionali, sullo stato di salute del nostro cinema. Ma comunque tutto bene, tutto ben fatto. E buona visione.
di Gianfranco Tomei
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